Niente prigionieri

Mentre si completa lo spoglio delle urne in Francia e si apre l’ultima settimana della campagna per le primarie del PD in Italia, mi viene in mente una celebre scena di Lawrence d’Arabia (David Lean, 1962), in cui il protagonista (T. E. Lawrence, interpretato da Peter O’Toole) lancia i suoi uomini all’attacco di una colonna dell’esercito turco in rotta, dando poi luogo ad un massacro spaventoso e inutile. Il suo braccio destro e amico, lo Sceriffo Alì, lo prega di lasciare incolume quella colonna nemica e di puntare senza indugi verso il loro vero obiettivo, Damasco. Lawrence non gli dà retta e dà l’ordine di attaccare al grido “no prisoners”, e l’esortazione viene ripetuta dai suoi uomini, mentre cavalli e cavalieri si lanciano verso la colonna turca.

Poste le dovute differenze, anche nei conflitti che si svolgono in politica, quando si arroventano, si direbbe che il grido più volte lanciato sia “niente prigionieri” e che, come nel film di David Lean, non vi sia alcuna riluttanza a continuare a colpire (delegittimare) gli avversari anche quando sono stati sconfitti.

In un altro post si è già posto in rilievo che sembrano sussistere ferite non sanate derivanti dal referendum costituzionale. Qui, mi pare sia il caso di tornare ad annotare quel che si rilevava in chiusura di quel post: nessun “onore delle armi” è stato concesso non soltanto agli esponenti politici, ai costituzionalisti, ecc., sostenitori del SI, ma neppure al complessivo 40% di cittadini-elettori che ha espresso quel voto, cioè 13 milioni 432mila persone.

Ciò che continua a svolgersi, dunque, come dinamica relazionale, è un aspetto ricorrente del conflitto: anche quando l’avversario è a terra, continuo a colpirlo.

Perché?

Forse, perché sono un sadico? No. Più probabilmente perché: sono ancora arrabbiato; sono ancora offeso; ho avuto paura che si affermasse una riforma per me inadeguata o, peggio, pericolosa e un po’, forse, ce l’ho ancora, questa paura. E, ancora: perché il nemico può sembrare morto o moribondo, ma c’è il rischio che sia solo svenuto e non voglio che si rialzi e torni alla carica; perché voglia farla finita con questo conflitto e con questo avversario.

Inoltre, un rilevante disincentivo al Fair Play del vincitore verso lo sconfitto, spesso è costituito dalla forza, dalla potenza del legame conflittuale. Questo può avere molti significati e risvolti, ma per brevità se ne considerano qui fugacemente solo due: quello della inappagabile sete di vendetta e quello dell’identità conflittuale su cui un gruppo (politico o di altra natura) è costituito.

La prima si può collegare alla necessità di vendicare un’offesa alla dignità per perseguire un altro più profondo e drammatico fine: tornare (o continuare) ad essere attori di primo piano sulla scena politica grazie alla visibilità della lotta vittoriosamente condotta contro chi ha cercato di oscurarci nella percezione degli altri.

L’altro aspetto rinvia a quelle situazioni in cui l’identità di un soggetto (individuale o collettivo) si è strutturata prevalentemente intorno all’essere antitetico rispetto ad altri. Come si può recedere da un conflitto o tentarne la de-escalation, se si pensa di esistere solo in funzione del proprio essere, radicalmente, ontologicamente, diversi dal nemico? Per continuare ad esistere, superando il conflitto, occorrerebbe aggiornare profondamente la propria identità, altrimenti occorrerebbe proseguire il conflitto, pur avendo vinto tutte le battaglie, anche a costo di inventarsi dei nemici anche solo potenziali.

Il problema, nel caso di un referendum che ha “spaccato” il Paese, è che ci sono un bel po’ di altre persone di cui tenere conto, oltre ai singoli esponenti politici, alle loro preoccupazioni e alla loro rabbia, ai loro rancori e alla ragione del loro esistere come soggetti politici.

E squalificare, anche involontariamente, le scelte fatte da 13 milioni di elettori – ma fossero anche solo 13 mila poco cambierebbe in linea di principio – non aiuta a ricucire il Paese. Sempreché questo sia un obiettivo ritenuto degno di essere perseguito.

Quei 13 milioni, se li voglio considerare schierati contro di me, infatti, sono un avversario che grazie alla mia vittoria potrò al massimo ridurre al silenzio; ma si tratterebbe di un silenzio apparente, prossimo a riprendere voce, magari rabbiosa, al prossimo giro di boa.

Diceva Gandhi che finché c’è un perdente la guerra non è mai finita.

Infatti, l’escalation del conflitto politico non soltanto è di forte ostacolo all’auto-contenimento delle spinte e delle istanze aggressivo-difensivo-distruttive ancora presenti al termine di una battaglia conclusa, ma è anche un fecondo generatore di fiumi carsici di rancore o, almeno, di desiderio di ripicca, rivincita e rivalsa.

Il mio delegittimare il punto di vista dell’elettorato sconfitto, peraltro, non agevola una conversione di quei cittadini alle mie idee, né facilita in essi il raggiungimento della consapevolezza sull’errore commesso nell’urna, se questi sono i miei intenti. Può semplicemente indurli a tenere i loro pensieri per sé, soprattutto se, rivendicando ad alta voce il loro voto, temono di porsi fuori dal pensiero dominante.

Ma tale prosecuzione, magari sotterranea, delle ostilità è ben altra cosa dal costruire ponti. E può alimentare nei leader sconfitti, insieme al naturale, e democraticamente necessario, desiderio di rivincita, un sentimento di biasimo verso quell’elettorato che si è espresso contro di loro. Cioè: il leader battuto alle urne non potendo esprimere il suo disappunto verso chi ha votato in difformità dalle sue aspettative, può finire con il proiettare questa rabbia impotente verso chi persevera nel delegittimare la sua tesi sconfitta e coloro che l’avevano approvata e votata.

Anche in tal caso, il conflitto non produce le riflessioni critiche radicali che forse ci si aspetterebbe, e ancor meno quelle revisionistiche che i vincitori o taluni osservatori vorrebbero udire. Si pensi all’intervista rilasciata Renzi ad Ezio Mauro su La Repubblica del 14 gennaio e ai commenti che ne sono seguiti.

In realtà, l’affermazione, spesso proposta dai leader sconfitti, di non essere riusciti a farsi capire dal Paese, può essere, da alcuni interpretata come un’analisi autocritica corretta circa il proprio stile comunicativo e, da altri come un implicito giudizio contemporaneamente autoassolutorio e di condanna di un elettorato che non è stato capace di guardare alla sostanza giusta della proposta politica, un elettorato, cioè, che sarebbe reo di essersi fermato all’involucro in cui essa era confezionata. Questa seconda interpretazione è quella che di solito viene rinfacciata dal vincitore allo sconfitto, quando questi spiega la propria sconfitta elettorale in termini di un problema di comunicazione. E, in verità, si potrebbe sostenere che il denunciare da parte del vincitore la pochezza di tale analisi costituisce una semplice, ma efficace, mossa sul piano conflittuale, poiché apparentemente consente di mantenere la “luna di miele” con la maggioranza degli elettori, dicendo indirettamente ad essi che sono stati saggi a votare per lui e non per l’altro.

In conclusione: tutto quanto sopra proposto è naturalmente riconducibile alle più frequenti dinamiche conflittuali, rinvenibili anche in sede politica, però, in un’ottica di Political Conflict Management, sarebbe opportuno accogliere e riconoscere tali aspetti relazionali e i vissuti ad essi associati, precisando che ciò non implica in alcun modo il chiedere alle parti di convertirsi ad un atteggiamento superficialmente pacifista. Infatti, ammesso che teoricamente abbia qualche senso proporre un simile invito, il farlo, in realtà, potrebbe voler dire non far sentire riconosciuti i suoi destinatari, soprattutto se costoro si sentono impegnati a lottare per ciò in cui credono.

Semmai, per citare May Sarton, si potrebbe considerare che a volte, quando siamo nelle spire del conflitto, potrebbe essere necessario o conveniente per la nostra causa tentare di pensare come farebbe un eroe generoso, così da riuscire a comportarci e ad essere riconosciuti come esseri umani appena passibili.

Ad esempio, potrebbe non essere sterile considerare che certe affermazioni, indipendentemente dall’intenzione di chi le pronuncia, possono riuscire svalutanti all’orecchio di chi le sente. Specie se costui ha l’animo acceso e sensibilizzato dal conflitto in corso. Così, se è un dato di realtà il fatto che la maggioranza schiacciante dei giovani nel referendum costituzionale ha votato in un modo, il proporre tale dato, lasciando intendere che il voto espresso da quella parte anagrafica di elettorato abbia una maggiore qualità, può essere recepito dalla parte più anziana dell’elettorato in termini squalificanti. Come se il voto da essa dato fosse scadente, in quanto correlato ad una ridotta capacità di analisi dovuta all’età.

In sostanza, in tali situazioni, potrebbe avere una qualche utilità tentare di ascoltare e fare sentire ascoltati anche coloro che non hanno votato per noi o come noi. E, nel farlo tenere, conto anche della sensibilità o suscettibilità del cittadino-votante finito in minoranza.

Considerare simili aspetti, e assumere atteggiamenti politici coerenti con tale attenzione, non equivale a collocarsi sul registro di uno stucchevole “politicamente corretto” di facciata, ma significa perseguire il tentativo di ascoltare e riconoscere gli interlocutori, cioè le persone. Tutte.

Poiché, in fondo, si potrebbe supporre che, quel che vale per la libertà valga anche per il rispetto della dignità. Se non è tutelata quella di tutti non lo è, in realtà, quella di nessuno.

L’esperienza quotidiana e quella storico-politica insegnano che queste e altre attenzioni rivestono una certa efficacia anche come prevenzione dei rischi autodistruttivi di una esasperata conflittualità.

Infatti, per restare con le citazioni in ambito USA, si rammenti quel che disse Dwight David Eisenhower, generale d’armata e poi Presidente degli Stati Uniti (dal 1953 al 1961): «In realtà sono convinto che la gente desideri talmente tanto la pace che un giorno ai governi converrà lasciargliela godere». Il che non vale solo per le guerre, ma anche per quella conflittualità politica fisicamente non così violenta, ma connotata da messaggi costantemente intrisi di reciproche denigrazioni.

 

Alberto Quattrocolo

 

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