Nessuna vittima è più uguale di un’altra

Rispetto alla vittima di un’ingiustizia, di una violenza, siamo spesso portati all’idealizzazione, ma quando non ci è possibile idealizzarla come martire, come eroica o, almeno, come vicina o simpatica, a volte fatichiamo un bel po’ ad essere empatici con la sua sofferenza.

Pare quasi che rispetto alle vittime prevalgano due tipi di atteggiamenti: da un lato, vi sarebbero le vere vittime, cui vanno comprensione e a volte anche ammirazione; dall’altro, le pseudo-vittime, oppure le non-del-tutto-vittime, cioè “quelle che, un po’, ciò che gli è accaduto se lo sono cercato” e “quelle che, in fondo, gli sta bene”.

Così, per alcuni le vittime dell’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle sono vittime a pieno titolo, mentre per altri no. Per alcuni le vittime delle foibe sono vittime a lettere cubitali, per altri, invece, andrebbero dimenticate o trascurate. L’elenco degli esempi potrebbe continuare a lungo.

A livello teorico, però, sappiamo che la vittima è tale anche se non ne condividiamo o perfino se ne disapproviamo le idee, i valori, i pensieri e i comportamenti. Infatti, in teoria sappiamo che è una vittima anche chi è fatto oggetto di violenza a causa dell’immoralità reale o presunta della sua condotta.

Chi commette violenza ai danni di altri, come già affermato in altri post (Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima; La criminalizzazione dell’avversario; Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile), può auto-assolversi, giustificarsi, facilitarsi nella realizzazione dell’azione violenta, colpevolizzando la vittima. Ad esempio: il partner violento a volte giustifica i propri pugni e calci incolpando l’altro di essere irritante, disordinato o infedele; il genitore che maltratta i propri figli si auto-assolve adducendone il carattere indisciplinato, ribelle o capriccioso; il ladro o il rapinatore spesso si giustificano in virtù del fatto che la vittima è più ricca di loro; gli autori di un pestaggio di gruppo ai danni di una o più persone, le ritengono “colpevoli” di essere diverse (tifose di un’altra squadra, appartenenti ad un’altra religione…); i partecipanti ad un linciaggio fisico o mediatico, si legittimano in virtù della presunta o acclarata colpevolezza dell’oggetto della loro furia; chi sfregia con l’acido l’ex partner lo considera imperdonabile per il fatto non volerne più sapere di quel rapporto.

In sostanza, citando John Le Carré (La Casa Russia) che, a sua volta, citava, parafrasandola, La fattoria degli animali («tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri»), di George Orwell, potremmo dire che: le vittime sono tutte uguali e nessuna è più uguale di un’altra.

Se non accettassimo questa premessa e proponessimo una classifica delle vittime escludendo dal novero coloro che per qualche ragione non ci piacciono, staremmo proponendo una prospettiva alquanto pericolosa, perché discriminante ed orientata ad una sorta di “rivittimizzazione” sociale.

Spendo alcune righe per dare un minimo di sostanza all’espressione “rivittimizzazione” sopra impiegata e per collegarla al più ampio processo di vittimizzazione, definibile come quella sequenza di fasi, che si producono a partire dall’evento lesivo e segnano un modo di percepirsi e di comportarsi della vittima. Sin dagli anni ’70, Emilio C. Viano, aveva distinto quattro fasi. Le propongo in termini sintetici e perciò riduttivi. La prima è la fase del danno: il soggetto percepisce di aver subito un evento lesivo. Non necessariamente avverte da subito che si tratta di un danno ingiusto e si riconosce come vittima. Può addirittura non riconoscersi mai come tale (ad esempio, dice a se stessa: “ me lo meritavo…”, “non è poi così grave…”, “sono io la causa di ciò che mi è stato fatto”, “era destino”, “prima o poi doveva capitarmi”), non solo per una questione personologica, ma anche se la cultura o la sottocultura cui appartiene o il contesto relazionale in cui è inserita la portano ad assumere tale modalità di rapportarsi al fatto dannoso. La seconda è la fase della percezione di essere vittima: la vittima assume la consapevolezza di essere tale, realizzando che il danno subito è ingiusto. È uno stadio decisivo in moltissimi casi per la perseguibilità dell’autore del fatto lesivo, che, altrimenti, e non di rado, resta impunito proprio grazie al silenzio e alla passività della vittima. Questa fase è l’esito di una “riorganizzazione” delle funzioni psicologiche primarie della vittima, però non è acquisita definitivamente e può essere influenzata da numerosi fattori, incluso lo stress sofferto. Il terzo stadio è il riconoscimento altrui: la vittima avverte il bisogno di portare uno o più altri soggetti al “riconoscimento” della sua condizione di vittima, vale  a dire della portata e della natura ingiusta danno patito, sia per trovare conferma esplicita della propria auto-percezione, sia per chiedere la punizione dell’autore. La quarta fase è il riconoscimento ufficiale, l’ufficializzazione della condizione di vittima da parte delle agenzie di controllo sociale. Le ultime due fasi incidono molto sulla possibilità che la persona regredisca dalla fase in cui realizza di aver subito un danno ingiusto a quella in cui riconosce soltanto che quel che è successo le fa male ma non anche che è ingiusto: così, se il contesto relazionale più prossimo, l’ambiente sociale o le istituzioni non prestano fede alla sua narrazione, oppure minimizzano il danno o ne negano o attenuano la sua natura ingiusta, ciò, oltre ad ingenerare un dolore profondissimo nella persona, facendola sentire respinta, isolata, biasimata, in breve, rivittimizzata (si pensi: al minore abusato sessualmente, che con grande fatica comunica ad altri l’abuso e non viene creduto, concretizzando così la speranza del suo abusante e convalidando la sua scelta nella selezione di quella vittima; alla donna stuprata cui viene proposta dalla società la assurda teoria della “vis grata puellae”, che recupera un’espressione dell’”Ars amatoria” di Ovidio per affermare che si tratterebbe di una violenza gradita alla fanciulla), può anche influenzarla fino al punto di convincerla che quel che le è successo è davvero da attribuirsi al fato oppure che è perfino giusto. Non pochi tra coloro che vengono accolti nei nostri servizi gratuiti di tipo vittimologico (cioè quelli di sostegno psicologico per: vittime di reato in generale e persone affettivamente legate alle vittime, donne vittime di violenza e i loro bambini e rifugiati e richiedenti asilo adulti e minori) si sono dovuti misurare con tali aspetti, sentendosi, a volte, in colpa e a disagio addirittura per l’ascolto che stavano ricevendo. Non raramente, infatti, oltre agli altri aspetti traumatici, angoscianti e dolorosi, si rileva presso costoro anche come la delegittimazione si possa insinuare nella persona, che, allora, spesso si vergogna a dare voce alla sofferenza provata.

In definitiva, una società che accordasse riconoscimento (quindi, rispetto, attenzione concreta, prossimità sul piano umano e sostegno) soltanto alle vittime ritenute meritevoli, magari per interessi politici o per ragioni di strategia politica, approverebbe ufficialmente criteri discriminatori. Criteri, cioè, che in realtà non sarebbero forse dissimili da quelli spesso già presenti nella pubblica opinione, ma che, almeno per ora, direi che non sono ufficialmente legittimati.

Se ciò accadesse, si darebbe luogo a qualcosa di inquietante: da un lato, ne deriverebbero messaggi potenti, a cavallo tra l’ufficiale e l’ufficioso, di legittimazione o, almeno, di tolleranza della violenza rivolta ad alcune categorie o ad alcuni gruppi di persone, evocando logiche proprie di regimi indifferenti ai diritti umani; dall’altro, si danneggerebbero anche le vittime “gradite”.

Infatti, il sentirsi oggetto di attenzione e vicinanza empatica solo perché si rientra nelle ipotesi di vittimizzazione ufficialmente definibili come tali, in virtù di una catalogazione gradita alla cultura e al pensiero dominanti o alla supposta “pancia dell’elettorato”, significherebbe, in realtà, sperimentare un vissuto tutt’altro che comodo e confortevole: in tali situazioni, cioè, si verrebbe riconosciuti non perché si è patito un danno ingiusto e per l’umana sofferenza provata, ma in quanto si costituisce un argomento a favore di un determinato programma o pensiero politico. Si verrebbe riconosciuti, dunque, non come esseri umani ma come esempi di una casistica proponibile utilmente a fini di propaganda.

In tale malaugurata ipotesi, l’attenzione verso la vittima “più uguale” non sarebbe incondizionata né fine a se stessa, come dovrebbe sempre essere, bensì condizionata e strumentale alla realizzazione di obiettivi altri, il cui perseguimento, a dispetto delle intenzioni anche nobili e delle dichiarazioni di principio, metterebbe in secondo piano la dignità, la sofferenza, i bisogni emotivi e relazionali di tutte le vittime di violenza (anche di quelle “più uguali”), negando, così, la loro umanità.

 

Alberto Quattrocolo

1 commento
  1. laura
    laura dice:

    Penso che il problema, al contrario, sia l’abnorme proliferare di vittime di ogni genere, oggetto di ogni qualsivoglia vera o presunta soperchieria. Trovo che questo estenuante moto perpetuo di chiacchiere, analisi, giustificazioni, mediazioni, elusioni di conflitti sia socialmente pernicioso e causa di distacco dalla inevitabile durezza ed asperità della vita. Tanto da essere concausa in un processo di degenerazione marcescente delle.attuali, evolute, società occidentali. Finisco con un’ovvietà mai troppo sottolineata: dialogo.e mediazione.necessitano di un contesto plurale.

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