7 luglio 1901: nasceva Vittorio De Sica. Lo omaggiamo ricordando Umberto D.

Nacque il 7 luglio del 1901 Vittorio De Sica, a Sora, in una famiglia che, secondo le sue parole,

viveva in una condizione di «tragica e aristocratica povertà».

Dopo aver esordito a teatro negli anni Venti, era diventato una star nostrana delle commedie cinematografiche nel decennio successivo. Aveva esordito alla regia nel ’39 e dopo tre celebri commedie, il toccante I bambini ci guardano e La porta del cielo, tutti film diretti durante la guerra (l’ultimo per evitare di finire a Salò), era diventato, con Roberto Rossellini, uno dei fondatori del Neorealismo cinematografico e uno dei maestri del cinema mondiale.

Uno dopo l’altro, infatti, nell’immediato Dopoguerra, diresse quattro capolavori: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952), tutte pietre miliari del neorealismo cinematografico italiano, interpretate da attori non professionisti (ad interpretare il protagonista di Umberto D. è Carlo Battistiprofessore di glottologia all’Università di Firenze, e autore, con Giovanni Alessio e altri, del Dizionario Etimologico Italiano). I primi due film ottennero l’Oscar come miglior film straniero e il Nastro d’argento per la migliore regia. Ma il quarto gli procurò non pochi guai. In particolare, venne accusato da un autorevole esponente del Governo di mettere in cattiva luce l’immagine dell’Italia.

Umberto D., sceneggiato da De Sica e Cesare Zavattini (alla sua quarta collaborazione con il regista), in effetti, è molto amaro e realistico. Amaro, cioè, come solo può esserlo la realtà. Racconta la solitudine e il disagio di un anziano funzionario ministeriale, che, pur campando con una misera pensione, conserva la sua umanità, cioè la capacità di ascoltare e capire il prossimo, e tenta di preservare il rispetto di se stesso. Partecipa, all’inizio del film, ad un corteo non autorizzato di pensionati – i cui cartelli recitano «Aumentate le pensioni. Abbiamo lavorato tutta una vita» -, che viene fatto sgomberare dalla polizia, poi vende l’orologio per pagare l’affitto, ma scopre che il suo appartamento è subaffittato e viene zittito dalla padrona di casa, che lo minaccia di cacciarlo se non paga gli arretrati, così si mette a fare le elemosina, ma desiste quando incrocia un conoscente… Dopo un ricovero in ospedale, per una tonsillite, tenta di buttarsi sotto un treno per non essere più di peso a nessuno, ma all’arrivo del treno il suo cagnolino gli scappa. Distolto dal pensiero del suicidio, Umberto D. gioca con il cane, allontanandosi lungo un vialetto.

De Sica aveva dedicato il film a suo padre, Umberto De Sica. E, come già aveva sperimentato con i tre film precedenti, anche in tal caso gli toccò rilevare come in patria Umberto D. incassasse pochissimo.

In realtà, anche SciusciàLadri di biciclette avevano reso assai poco al botteghino italiano. Il primo, anzi, aveva mandato quasi in rovina, per l’esiguità degli incassi sul mercato interno, il suo produttore, l’italo-americano William Tamburella. Però, aveva reso più di un milione di dollari al distributore della pellicola negli USA. Non trovando un produttore disposto a finanziare il nuovo soggetto suo e di Zavattini, visto l’insuccesso commerciale di Sciuscià, De Sica dovette prodursi da solo Ladri di biciclette.

Già con Sciuscià De Sica aveva avuto dei problemi “politici”:

«Si vergogni! Si vergogni di fare film come questi. Che diranno di noi all’estero? I panni sporchi si lavano in casa“, ad esempio, gli era stato gridato contro al termine della presentazione del film a Milano.

Ma l’attacco che ricevette Umberto D. fu  molto più pesante.

Infatti, fu Giulio Andreotti a lanciargli la sua invettiva sul principale quotidiano di PiacenzaLibertà:

«Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale».

Giulio Andreotti non era uno spettatore qualunque. Era il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E stava conducendo già da qualche anno una “crociata” contro il Neorealismo. Era del 7 ottobre 1946 una sua lettera indirizzata ad alcuni industriali del cinema che esplicitamente intendeva «invitare ad orientare le loro iniziative verso temi e motivi più nobili, evitando il più possibile ogni elemento di spettacolo negativo dal punto di vista morale». Si riferiva, in particolare, a quei film neorealistici che trattavano temi quali «il banditismo», «i fuorilegge», «la pratica delle case di tolleranza», ecc. [1].

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Umberto D. sarà poi inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, cioè le “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978”, sarà candidato alla Palma d’Oro a Cannes, otterrà il New York Film Critics Circle Award come miglior film straniero e sarà candidato agli Oscar per la miglior sceneggiatura. Soprattutto, resterà uno dei vertici del Neorealismo, il movimento che non solo tirò il cinema italiano fuori dalle secche del ventennio fascista, ma lo rese esemplare nel mondo, influenzando in misura diversa tutte le altre cinematografie, non solo occidentali, inclusa, tra queste, quella hollywoodiana.

Del resto, lo stesso De Sica si troverà poi a lavorare con capitali e divi internazionali, anche di Hollywood, spesso sfondando su tutti i mercati o quasi [2].

L’ultimo suo film da regista, Il viaggio, tratto da Pirandello e interpretato da Richard Burton, Sofia Loren e Ian Bannen, è girato nel ’74, cioè nell’anno della sua morte a Neuilly-sur-Seine (il 13 novembre).

Parlando di se stesso, Vittorio De Sica ha detto:

«No, io nego di essere svagato. Sembro addormentato, sembro disattento. E invece vedo tutto, ricordo ogni cosa e non dimentico nulla, proprio nulla».

Chiudiamo con un aneddoto sul padre Umberto. Vittorio De Sica racconta che un giorno suo padre venne fermato da un sarto cui doveva del denaro per avergli confezionato l’abito che indossava. Costui, arrabbiato, lo aveva preso per la giacca. Umberto De Sica, senza scomporsi, disse allora al suo aggressore che, dato che fino a quel momento era stato in cima alla lista dei suoi creditori, faceva bene a togliergli le mani di dosso se non voleva finire al fondo di quella lista.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Non tutti i film Neorealismo o da questo influenzati venivano trascurati dagli spettatori italiani. Vivere in pace (1947), di Luigi Zampa, sfonda al box office, Il sole sorge ancora (1946), I fuorilegge (1949), di Aldo Vergano, vanno piuttosto bene quanto ad incassi, mentre In nome della legge (1949), di Pietro Germi, e Riso amaro (1949), di Giuseppe De Santis, addirittura sbancano al botteghino. Ma ve ne sono anche altri, che coniugando spunti e approcci neorealistici con stilemi propri di altri generi, conseguono buoni e perfino ottimi risultati commerciali, oltre che premi e riconoscimenti, non solo all’estero ma anche nel nostro Paese.

[2] Negli anni Cinquanta Vittorio De Sica interpreta alcuni grandissimi successi commerciali sotto la direzione di altri registi, tra cui Pane amore e fantasia (1953), che avrà tre sequel, e Altri tempi (1952), nell’episodio Il processo di Frine. Inoltre, diretto da Roberto Rossellini, interpreta Il generale Della Rovere (1959, premiato  al Festival di Venezia con il Leone d’oro, ex aequo con La grande guerra di Mario Monicelli) e il kolossal Addio alle armi (1957, di Charles Vidor), che gli vale la candidatura all’Oscar come miglior attore non protagonista. Affianca, inoltre, Alberto Sordi in alcune pellicole di grosso successo (Il conte MaxIl moralista, Il vigile). Nello stesso decennio dirige L’oro di Napoli (1952), Stazione Termini (1953) – finanziato da David O’ Selznick (il produttore, tra gli altri, di Via col vento Duello al sole) e interpretato da due superstar dell’epoca: Jennifer Jones e Montgomery Clift –  e Il tetto (1956). Negli anni sessanta realizzerà costose produzioni cinematografiche, finanziate da Carlo Ponti e interpretate da attori di fama internazionale, molte delle quali rendono incassi impressionanti e vengono premiate nei diversi festival: La ciociara (con Sofia Loren, Eleonora Brown, Jean Paul Belmondo, Raf Vallone e Renato Salvatori), in primo luogo, – che frutta alla sua interprete la vittoria dell’Oscar e quella del Festival di Cannes, nonché Il Nastro d’Argento, il David di Donatello, il Golden Globe, il premio del New York Film Critics Circle Award e la vittoria ai BAFTA -; ma anche Ieri, oggi e domani (con Marcello Mastrianni e Sofia Loren) incassa benissimo – e procura a De Sica un altro Oscar (come miglior film straniero) -, così come Matrimonio all’Italiana (di nuovo con la Mastroianni e la Loren, premiata al Festival di Mosca e candidata come miglior attrice, insieme alla pellicola, agli Oscar). Meno riscontro, anche dalla critica, ebbero Il giudizio universale (interpretato da un cast notevolissimo in cui figuravano tra gli altri: Anouk Aimée, Vittorio Gassman, Jack Palance, Alberto Sordi, Ernest Borgnine, Silvana Mangano, Lino Ventura, Paolo Stoppa, Fernandel, Nino Manfredi), I sequestrati di Altona (un’altra opera con un cast internazionale: Sofia Loren, Frederich March e Maximillian Shell) e Il boom (con Alberto Sordi e Gianna Maria Canale). Invece ebbe incassi elevati (e qualche problema con la censura) il film Bocaccio 70, di cui diresse solo uno dei quattro episodi (gli altri furono diretti da Federico Fellini, Mario Monicelli e Luchino Visconti). Dopo altre opere, non particolarmente apprezzate, realizzate tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo – tra le quali: Caccia alla volpe (con Peter Sellers, Britt Ekland, Victor Mature, Akim Tamiroff, Paolo Stoppa e Martin Balsam), Sette volte donna (con Shirley Maclaine, Peter Sellers, Micheal Caine, Elsa Martinelli, Vittorio Gassman, Alan Arkin, Philippe Noiret e Anita Ekberg), I girasoli (ancora con Mastroianni e la Loren), Amanti (con Faye Dunaway e M. Mastroianni) e Lo chiameremo Andrea (con Mariangela Melato e Nino Manfredi) -, sarà Il giardino dei Finzi-Contini, dal romanzo di Giorgio Bassani, a riportarlo al successo commerciale e a procurargli un ulteriore Oscar.

 

 

 

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