mediazione in pratica

La mediazione in pratica

Principali modelli di mediazione

Vi sono diversi modi di mettere la mediazione in pratica. Due autorevoli studiosi statunitensi hanno tentato di delineare una classificazione degli approcci maturati negli ultimi decenni[1]. Delle quattro impostazioni rinvenute da Bush e Folger, le più interessanti sono due.

La mediazione in pratica secondo un modello “problem solving” teso a soddisfare gli interessi delle parti

Il primo filone, quello che gli autori definiscono “The Satisfactory Story”, considera la mediazione in pratica come uno strumento per soddisfare nel modo più pieno possibile le esigenze e le richieste dei confliggenti. Si tratta di aiutare le parti a ridefinire il conflitto nei termini di “un problema comune e reciproco”, attraverso l’adozione di atteggiamenti collaborativi, che si rifanno alle tecniche del problem-solving e alla logica distributiva e rivendicativa della contrattazione. La prospettiva, pertanto, è quella di superare il “win-lose approach” per approdare ad una “win-win strategy”.

L’opinione di Elisabetta Nigris è che, pur ricco di molti meriti, soprattutto nell’aver determinato un’importante svolta culturale, quest’approccio nasconde una velata paura del conflitto.

Le tecniche adottate si risolvono spesso nella proposta di pacificazione forzata, che riducono l’aggressività e la violenza immediata, ma che non danno risultati del tutto soddisfacenti nel lungo periodo. Si limitano spesso, infatti, ad un tipo d’analisi e d’intervento che si concentra più sul sintomo – ossia sulle cause apparenti dei conflitti stessi – che sulle motivazioni recondite[2].

La mediazione in pratica secondo il modello trasformativo

Nel modello definito da Bush e Folger “The Transformation Story”, la mediazione in pratica non ha il fine di trovare necessariamente una soluzione al conflitto, ma quello di aiutare le parti ad elaborarlo positivamente. Il mediatore diventa, quindi, un ponte tra le parti, nel tentativo di ristabilire una comunicazione che faccia emergere quei blocchi emotivi e cognitivi che hanno impedito fino a quel momento la gestione costruttiva della vicenda. In quest’ottica la mediazione trasformativa, più di altri modelli, pone l’accento sugli aspetti relazionali e comunicativi del conflitto: “il richiamo alla riorganizzazione delle relazioni sottolinea la necessità di distanziarsi dal campo in cui si svolge il conflitto stesso, per smascherare le motivazioni apparenti che vengono addotte”.

Quest’impostazione pone in evidenza che una relazione conflittuale può essere gestita non soltanto ponendo attenzione ai fatti, agli interessi in gioco e agli obiettivi, concentrandosi sulle soluzioni che mirano alla cessazione delle ostilità e al ripristino dell’equilibrio turbato, ma anche e soprattutto soffermandosi sugli stati d’animo dei confliggenti.

Le mediazione in pratica nel modello Ascolto e Mediazione dei Conflitti

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Va da sé, dunque, che lo strumento principale adottato, la risorsa centrale, è l’ascolto empatico. E ciò vale anche per la mediazione in pratica proposta da Me.Dia.Re., che non a caso definisce i propri Servizi di Ascolto e Mediazione dei conflitti.

L’ascolto, oltre ad offrire, riconoscimento, contenimento e sollievo da un senso di solitudine e di isolamento. Produce anche un altre effetto: permette al mediatore di accompagnare i confliggenti verso la consapevolezza che nell’incontro di mediazione non vale la logica per la quale se uno è nel giusto ciò avviene necessariamente a discapito dell’altro, il quale, allora, per definizione, sbaglia. Il che non implica che, per il mediatore, le parti debbano rinunciare ai propri punti di vista e ai propri valori, ma significa che, grazie al suo ascolto, sono liberati, in tale contesto, dalla classica preoccupazione secondo cui

dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais).

Dunque ai fini di un esito soddisfacente della mediazione in pratica occorra la preesistente esistenza di una volontà di reciproca apertura dei medianti. Infatti, sono rare le situazioni in cui i confliggenti si rivolgono al mediatore perché realmente alla ricerca di un terzo neutrale che li aiuti nella costruzione di un accordo. Più spesso ciascuna delle parti cerca nel mediatore un giudice che si trasformi in un alleato forte, che attribuisca ragione a sé e torto all’altra parte.

Dall’ascolto al riconoscimento di sé e al riconoscimento reciproco

Il modello di mediazione praticato da Me.Dia.Re., pertanto, fa appello non al bisogno/desiderio delle parti di raggiungere un accordo, ma al loro stare male nel conflitto, al loro sentirsi soli e al bisogno di porre rimedio a tale dolore.

Il mediatore, infatti, riconosce quella solitudine, accoglie rabbie e frustrazioni, comprende la tristezza della fiducia perduta, ma il suo ascoltare e rinviare ai protagonisti della mediazione i loro vissuti, consente a ciascuno di parlare di sé. Così, poco alla volta, entrambe le parti si ritrovano a dar voce a ciò che provano, non per rinfacciarlo all’altro ma per semplicemente per esprimere la loro condizione e, in fondo, anche per dirlo a se stesse. L’espressione dei vissuti, la comunicazione dei dolori e delle angosce consente, allora, di lasciar cadere i ruoli con i quali si sono presentati ed attorno ai quali ruotava il conflitto. Di fronte al mediatore, ma soprattutto al cospetto l’uno dell’altro, non ci sono più soltanto due coniugi in lite e prossimi alla separazione, un padre e una figlia costretti nei rispettivi abiti, o due vicini di casa o due colleghi portatori di valori, abitudini, stili di vita o di lavoro inconciliabili, ma due esseri umani. Due individui che si raccontano e che, attraverso il racconto di sé, offrono all’altro la possibilità di una conoscenza più ricca e complessa, che può condurre alla comprensione e al reciproco riconoscimento.

L’effetto dell’ascolto svolto dal mediatore è proprio questo arrivare a sentire l’altro, a comprenderne empaticamente la realtà e a riconoscere la verità soggettiva ma preziosa di cui è portatore.

Naturalmente non sempre la mediazione arriva a tali esiti. E probabilmente è un bene che sia così. Forse sarebbe alquanto pericoloso un mondo nel quale, coricandosi la sera, il mediatore potesse realisticamente permettersi di pensare con Goethe:

su tutte le vette è pace”.

D’altra parte, se questa fosse la sua aspirazione, sarebbe verosimilmente un pessimo mediatore.

L’altra faccia della medaglia

Naturalmente questo modello di mediazione, fondato sull’ascolto delle emozioni, presenta delle criticità.

La principale, forse, consiste nell’assenza di certezze, di basi consolidate, anche di tipo teorico, su cui appoggiarsi.

Uno dei pilastri su cui le pratiche di mediazione, compresa quella qui descritta, poggiano è, in effetti, la capacità naturale di mediare presente nelle persone. Ciò che la Klein chiama “accesso alla posizione depressiva”, cioè la capacità di ognuno di uscire dallo schema difensivo e/o aggressivo in cui è, o si è, ingabbiato per “sentire” l’altro, esiste indipendentemente dall’intervento di mediazione, anche se alcuni modelli (incluso quello qui delineato) si fondano proprio su tale potenzialità dell’essere umano.

Dubito fortemente, quindi, che tale modello di mediazione, che non ha scoperto l’ascolto e l’empatia, abbia inventato alcunché ex novo. Credo, invece, che abbia il pregio, piuttosto, di saper amalgamare risorse e competenze particolari, da sempre esistenti nelle attitudini umane, e di applicarle nel delicato settore della gestione del conflitto. Inoltre, è verosimile che abbia più di un debito verso molteplici discipline. Si pensi, ad esempio, alle riflessioni maturate in ambito criminologico che hanno portato alla costruzione del paradigma della “giustizia riparativa”, ai richiami a teorie psicologiche dei più diversi orientamenti e ancora agli spunti forniti dalla sociologia e dalla filosofia.

La mediazione in pratica è l’applicazione di un sapere pratico

Proprio per questa ricchezza di riferimenti, è difficile sostenere che tale modello di mediazione poggi il suo intervento su un complesso definito e organico di teorie sociali, o che si basi su particolari teorie della personalità (anche se nell’ambito della mediazione familiare vi è un saldo riferimento ad un orientamento consolidato della psicologia).,

Tuttavia ciò non significa che questo mediatore si muova sospinto dall’improvvisazione, poiché, evidentemente hanno un‘indubbia rilevanza le conoscenze acquisite sul conflitto e sulle sue dinamiche, nonché le riflessioni elaborate sull’efficacia di particolari strumenti d’intervento, che sono stati modellati proprio sulle peculiarità delle interazioni conflittuali.

Ciononostante, il suo sapere, essendo essenzialmente frutto dell’esperienza propria e altrui, resta suscettibile di costanti smentite, proprio perché egli agisce nel campo della soggettività: multiforme, imprevedibile, caotico (in quanto regolato da un ordine che molto spesso non si comprende).

Per questo deve essere disposto a rinunciare a molte garanzie e sicurezze, avendo solo la certezza che l’imprevisto è dietro l’angolo.

Detto in altri termini, ogni incontro di mediazione – come ogni autentico incontro compiuto nel quotidiano con qualsiasi individuo – mette in gioco anche il mediatore, ne scardina il personale puzzle con cui compone il proprio mondo, e lo modifica, aumentandone la complessità.

Ogni colloquio (si fa riferimento all’accoglienza delle singole parti separatamente, cioè ai c.d. colloqui preliminari che precedono la sessione di mediazione cui partecipano tutti gli attori del conflitto), dunque, significa per il mediatore non solo proporsi come specchio, ma anche porsi davanti ad uno specchio.

Uno specchio che, riflettendo la sua immagine in modo più o meno fedele, potrebbe disorientare.

Il paracadute formativo

Sotto quest’ultimo profilo, il training formativo dovrebbe costituire una sorte di paracadute: maggiore è la conoscenza che tale mediatore ha dei propri limiti, maggiore è la sua disponibilità a mettersi in gioco, a lasciarsi attraversare da argomenti, comportamenti e situazioni potenzialmente disturbanti, minori sono i rischi di destabilizzazione, nonché quelli di compromettere il processo di mediazione.

Sono queste le ragioni essenziali per le quali è consigliabile un percorso formativo caratterizzato da una massiccia quantità di situazioni interattive, nelle quali siano sempre presenti stimoli emotivi di diversa intensità.

Tuttavia, per la delicatezza dei temi affrontati, per il rispetto che merita la sensibilità di ciascuno dei partecipanti – lo stesso rispetto e considerazione che sono dovuti ai medianti in un intervento di mediazione – il formatore deve in ogni momento avere presente il benessere dei suoi interlocutori e salvaguardarlo. Senza tali precauzioni è probabile che invece di rifornire il futuro mediatore di un paracadute, lo si spinga fuori dell’aereo senza neppure un ombrello.

Resta vero che anche una formazione ben condotta non costituisce una garanzia certa: in ogni colloquio preliminare, in ogni mediazione, cioè in ogni salto nel buio, il paracadute può non aprirsi. In tal caso lo schianto, ovviamente, non è fatale, ma può essere piuttosto doloroso.

La risorsa della modestia

Quest’ultima considerazione si lega ad una risorsa che il mediatore dovrebbe avere ed esercitare: la “modestia”.

Intendo con tale termine non un tratto caratteriale o una qualità morale, ma un atteggiamento connaturato alla peculiarità della posizione di chi si presenta come terzo neutrale e privo di potere tra gli attori del conflitto.

Il mediatore, nel colloquio preliminare come al tavolo della mediazione, è co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi – in quanto incontra un altro essere umano e condivide con questi la scena dell’incontro (ed è, ovviamente, protagonista dell’esperienza dal proprio punto di vista), ma deve (dovrebbe) tendere a proporsi come lo sfondo da cui far emergere e risaltare con la massima nitidezza possibile la figura del mediante o dei medianti.

Non si tratta di un compito facile. Proporsi come sfondo, significa riuscire contemporaneamente ad essere presenti e a mettersi da parte.

Si tratta di dar vita ad un equilibrio instabile, tanto delicato quanto difficile, poiché implica trovarsi per tutto il tempo dell’incontro nella posizione di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la rivive, ma senza potere intervenire su di essa.

Il mediatore si pone accanto al mediante o ai medianti, assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, si lascia condurre nel conflitto, cioè nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale.

Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza testimoniando le sue sensazioni. Le sue sensazioni, tuttavia, non sono le “sue”: sono i vissuti che egli avverte nei medianti. Soltanto questo è quanto egli testimonia ai protagonisti. Le emozioni “veramente sue”, come le sue opinioni, devono restare dove e come stanno: silenziose dentro di lui. Diversamente non potrebbe porsi come facilitatore di un racconto il cui narratore e interprete è un altro e, poi, come catalizzatore di una trasformazione di cui il soggetto attivo è, ancora, l’altro.

La modestia, quindi, intesa in senso lato (o vago), c’entra.

Riconoscere il confine

C’entra anche perché il mediatore deve avere quel minimo d’umiltà – e di prudenza – necessaria a ricordare costantemente che le sue parole, il suo specchiare le emozioni e i sentimenti altrui, non sono mai “vere”. Egli dice, non dichiara, poiché, in fondo, il suo rispecchiare resta una testimonianza che egli propone di se stesso. Di ciò che avverte dentro di sé: di ciò che avverte dell’altro, d’accordo, ma sempre dentro di sé. Occorre, pertanto, che abbia quel tanto di modestia sufficiente a rammentarsi che, come quella presentata da ogni testimone, la sua è una verità squisitamente soggettiva. In quanto tale, dunque, suscettibile di contraddizione.

Per queste ragioni, nel corso della formazione, sono (dovrebbero essere) così numerose le attività in cui si chiede ai partecipanti di riconoscere le emozioni e i sentimenti percepiti nell’altro e di distinguerli da quelli avvertiti dentro di sé. Di riconoscere il confine

Non per ridimensionare questi rilievi e tali criticità, ma per banali esigenze di realismo, va riconosciuto, infine, che questa mancanza di certezze circa l’efficacia degli strumenti adottati non è propria soltanto della professione del mediatore, ma in maniera e misura diverse di molte altre professioni (se non di tutte): si pensi, per fare solo un esempio, alla professione medica, che pure è fondata su una scienza in continuo progresso, ma che nella pratica continua ad essere talora simile ad “un’arte” e ad essere caratterizzata dall’incombenza di un’alea, a volte assai pesante da sostenere anche per i suoi esercenti più collaudati.

Alberto Quattrocolo

[1] Bush R.A.B., Folger J.P (1994), Promise of Mediation, Jossey-Bass Publ., San Francisco.

[2] Nigris E. (2002), I conflitti a scuola, Bruono Mondatori, Milano, p.26.

 

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