L’onestà potrebbe essere un rimedio per alcune situazioni di impotenza del potere politico?

Da sempre la politica è anche ricerca, acquisizione e gestione del potere. Ad ispirare rapporti di alleanza o convergenza tra partiti o tra questi e forze sociali, quindi, vi è anche tale istanza. Però, l’esperienza dimostra che la ricerca del potere, realizzata talora attraverso la costruzione di estese alleanze tra partiti non integratisi realmente ma associati solo al fine di vincere le competizioni elettorali e poi di governare, produce nel medio o lungo periodo situazioni concrete di inadeguatezza nell’assolvimento dei difficilissimi compiti di governo. La ricerca del potere, cioè, a volte, procura risultati condizionati da una sorta di impotenza di fatto, non esclusivamente attribuibile al carattere complesso dei problemi concreti da affrontare.

Lo si è potuto constatare nel caso di talune esperienze di governo nazionale e, secondo alcuni critici del Movimento 5 Stelle, lo si riscontrerebbe anche nel caso dell’amministrazione di Roma.

I più duri detrattori di tale esperienza di governo cittadino cinque stelle si concentrano su alcuni aspetti negativi dell’azione svolta dalla giunta Raggi, attribuendoli ad una incapacità personale della sindaca capitolina e/o al carattere dilettantesco o severamente dirigistico dello stesso Movimento (come esempio tra i tanti vi è quanto scritto da Claudio Giua in un post, sul Blog dell’Huffington Post, dal titolo Roma, più che le patate bollenti contano gli errori politici).

In realtà, è possibile contemplare anche l’ipotesi che il parziale scontento dei cittadini romani, come l’insoddisfazione dei cittadini di altre città o quella generale degli italiani, sia riconducibile non solo alle difficoltà oggettive oppure agli errori commessi dai diversi amministratori, locali o nazionali, ma anche a qualcosa che attiene alla dinamica conflittuale in ambito politico e al suo intrecciarsi con la dialettica tra potere e impotenza.

In sede di campagna elettorale, infatti, soprattutto quando connotata da una notevole dose di delegittimazione dell’altro e da radicale svalutazione dell’altrui operato, si possono suscitare, volontariamente o meno, tali e tante aspettative in ordine al proprio potere di risolvere presto e positivamente i problemi e i disagi, da creare scontento non appena per quel particolare elettorato sia trascorso invano il termine di riscossione di quel credito di fiducia concesso nella cabina elettorale. Infatti, decorso quel tempo (che non è prefissato, né è facilmente prevedibile, essendo correlato a molte altre variabili, tanto che a volte dura pochi mesi, mentre in altri casi dura anni, lustri e perfino decenni), subentra una crescente dose di perplessità, la quale è suscettibile di divenire presto o tardi percezione di tradimento e, quindi, sentimento di sfiducia.

E ciò, può intaccare significativamente l’azione governativa, condizionandone l’esecuzione dei programmi originari, in virtù del tentativo, a volte affannoso, di preservare il consenso originariamente riscosso.

Così, commentando un’importante decisione della sindaca della Capitale, sempre sul blog dell’Huffington Post, Federico Mento ha scritto un post (Lo stadio della politica mimetica), in cui svolge un ragionamento che, nelle sue parole, riguarda «la politica di qualsivoglia orientamento». In particolare, Mento afferma che «a orientare la presa di decisione» non è più l’ideologia, ma la ricerca «del mero consenso» o il tentativo di «danneggiare l’avversario, anche nel caso in cui quest’ultimo abbia argomentazioni condivisibili». A suo avviso gli scontri in politica «mimano “ideologie”, mentre nella realtà nascondono la pochezza di un dibattito pubblico vuoto, davvero misero».

Utilizzando i termini proposti da Mento, potrebbe anche osservarsi, allora, che forse alla base di una politica «che preferisce procedere per mimesi, raccogliere consenso, piuttosto che costruirlo pazientemente nella società», vi è anche il conflitto politico: cioè le modalità con cui si sviluppa la sua escalation e, in taluni casi, il fatto che vi partecipino dei partiti o degli esponenti politici la cui identità politica è fondata quasi solo sull’essere sempre protagonisti di conflitti.

Perciò, uno dei fattori concausali delle situazioni in cui la politica si rivela inadeguata rispetto ai compiti che le sono affidati, potrebbe essere proprio quello di farsi condizionare, nell’assunzione delle decisioni, non soltanto da ragionamenti centrati sul tornaconto elettorale, ma, forse ancor prima e più profondamente, dalla ricerca di un consenso presso gli elettori fondato sulla loro reale o supposta avversione verso i partiti o gli esponenti politici concorrenti, così da screditarli e delegittimarli una volta di più. Cioè, da un lato, faccio questo, e non faccio quello, per enfatizzare, agli occhi dei miei elettori e spero anche degli elettori dei miei avversari, quanto io sia di gran lunga il migliore amministratore possibile, mentre gli altri sono i peggiori possibili; dall’altro, per rimediare alle percezioni di scontento dei miei elettori rispetto a quanto finora ho realizzato (scontento, che le mie controparti politiche hanno prontamente cavalcato) reagisco a tali attacchi, tentando di ri-sedurre l’elettorato: cioè, lo accontento su alcune richieste, a prescindere dai costi che ne deriveranno, e lo lusingo con promesse altisonanti ma poi di non facile realizzazione.

Qualcosa di simile, forse, potrebbe rilevarsi rispetto all’esperienza fin qui rappresentata dalla leadership di Matteo Renzi, prima come segretario del Partito Democratico poi come premier. Tanto elevate erano le aspettative di risultati immediatamente tangibili, generate, forse anche inavvertitamente, dal suo modo di porsi nella dialettica politica con gli altri partiti e con i precedenti leader del suo partito, che i primi successi lo hanno visto essere salutato come soggetto particolarmente dotato di reali capacità di azione, ma a tale periodo di luna di miele, anche con non pochi media, è in non molto tempo subentrata una sorta di luna di fiele con quasi tutti i media.

Ciò si è verificato a dispetto degli sforzi suoi e dei suoi sostenitori nella maggioranza governativa di cercare di porre in evidenza, da un lato, la complessità enorme e la lontana origine dei problemi italiani e, dall’altro, gli effetti benefici delle azioni realizzate dal governo.

Non del tutto remoto, allora, appare il rischio che un’analoga dialettica tra aspettative suscitate e delusioni successive possa verificarsi anche a sinistra del PD.

L’altalena tra speranze e frustrazioni, infatti, non interessa esclusivamente chi ha funzioni dirette di governo, ma può interessare anche coloro che si collocano all’opposizione o che si propongono di appoggiare il governo ma con occhio critico, come nel caso del gruppo parlamentare dell’Articolo 1 – Movimento democratico e progressista. Anche per loro l’ambizione esplicitata di esercitare un certo potere di condizionamento sulla politica del governo, data la fermezza con cui è stata espressa, potrebbe procurare nell’elettorato di cui intendono recuperare la fiducia, qualcosa capace, invece, di comprometterla seriamente: cioè, un’oscillazione tra sopravvalutazione e delusione.

Infatti, quando subentra in noi la delusione, anche la nostra sfiducia non tarda ad arrivare e presto si estende inclemente su tutti i fatti concernenti il soggetto da noi percepito come deludente. Quindi, se l’azione del governo Gentiloni non dovesse corrispondere a quei cambiamenti di marcia, di cui si è creata l’attesa nell’elettorato di sinistra (a partire da quello che si sarebbe scisso dal PD ancor prima della scissione ufficiale e della costituzione del nuovo gruppo parlamentare), questi elettori potrebbero considerare i politici in questione (da Speranza a  Bersani, da Rossi a Errani, da D’Alema a Gotor, ecc.), come ininfluenti o peggio inconcludenti, ascrivendo l’approvazione di singoli provvedimenti proposti o sostenuti da MDP ad una piccola svolta nella politica governativa, verificatasi del tutto autonomamente dalla loro azione politica. Ad esempio, quando interviene la sfiducia del paziente verso il medico, il parziale miglioramento sopravvenuto spesso non è attribuito dal malato all’efficacia dell’azione terapeutica di cui si era dubitato, ma è considerato come un fatto che sarebbe accaduto comunque, per un iter normale della malattia, per altri farmaci assunti ad insaputa del professionista, ecc.

In conclusione, se le precedenti considerazione posseggono almeno un velo di plausibilità, la questione pratica più rilevante è: come se ne esce?

Va da sé che sarebbe opportuno che, anche in politica, come negli altri ambiti della vita, ci si astenesse tanto dal prendere decisioni finalizzate prevalentemente a mettere in difficoltà i concorrenti, quanto dal promettere o dal lasciar credere di poter fare più di quanto si è certi di poter mantenere. Però, una volta, che tali aspettative si sono generate, potrebbe non essere del tutto astruso evitare di preservare la fiducia dei cittadini con il rilancio di altre promesse o con l’attribuzione dell’insufficienza dei risultati raggiunti all’azione ostruzionistica o svalutativa delle controparti politiche, assumendo, invece, un atteggiamento onesto.

Infatti, è possibile che, prima che nella indisponibilità alla corruzione e nella volontà di contrastarla, l’onestà si radichi nell’attitudine alla sincerità, per scomoda che sia la sua messa in pratica.

E certamente, spesso, è scomoda davvero la messa in pratica anche di tale forma di onestà, quella comunemente chiamata “intellettuale”. Poiché, a prescindere dalle caratteristiche psicologiche e morali dei suoi attori, ciò che l’escalation del conflitto fortemente inibisce è la disponibilità ad ammettere schiettamente gli errori commessi. Quindi, ciò che in primo luogo il conflitto sopprime è la verità.

Tuttavia, va considerato che, dopo 12 anni di esperienza in materia di ascolto e mediazione dei conflitti in sanità, possiamo tranquillamene affermare che determinante per il recupero della “sacra alleanza tra medico e paziente” è l’ammissione dell’errore: che si tratti di quello tecnico-professionale o di quello relazionale commesso dal primo, ovvero di quello di giudizio commesso dal secondo (o di entrambi).

Del resto anche la storia e la cronaca politica presentano degli esempi di assunzione di responsabilità per gli errori commessi.

Sembrerà poco pertinente, ma anche l’approvazione unanime, avvenuta il 1° marzo, da parte della Camera dei Deputati, di disposizioni in favore degli orfani di crimini domestici può essere interpretata anche come un’assunzione di responsabilità, peraltro pesantissima, da parte del Legislatore, nella misura in cui, riformandola, di fatto, riconosce i molti limiti della precedente disciplina penale e civile di tali situazioni criminose e, quindi, ne ammette l’insufficiente tutela che contemplava per i figli di persone uccise dai partner.

Il sentimento prevalente, però, in coloro che hanno un minimo di sensibilità riguardo a tali vicende – e che magari sono delusi dall’attività complessiva di questa legislatura -, presumibilmente non è di riprovazione, ma di approvazione e, magari, anche di apprezzamento per la votazione unanime data al succitato ddl.

Dunque, il partito o il singolo politico, per sottrarsi al capestro delle inibizioni (di matrice conflittuale) al riconoscimento degli errori compiuti, deve, sì, fare appello a dosi notevoli di coraggio, ma anche ad istanze auto-conservative: infatti, un leader che con trasparente onestà ammettesse di aver sbagliato, ad esempio, nell’aver lasciato sperare troppo sui benefici derivanti dalla sua opera, e riconoscesse la fisiologia della delusione generata, potrebbe avere oltre alla soddisfazione di aver agito virtuosamente,  forse, anche quella di aver recuperato un po’ di credibilità, specie se il suo sentimento di vergogna non è stato artificialmente esibito, ma autenticamente vissuto.     

 

Alberto Quattrocolo

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