La politica che parla (soprattutto) alla pancia

Una considerazione preliminare: chi avesse voglia di leggere questo post non proprio breve, magari avendone letti già altri sul blog, potrebbe essere indotto a supporre che, scrivendolo, avessi in mente uno o più leader, partiti o movimenti politici italiani o stranieri. Non è così. Il discorso svolto in questo articolo, come in altri successivi che avranno sempre nel titolo il riferimento alla pancia, è di carattere generale e astratto. Anche se, confesso, uno spunto non indifferente deriva dall’avere rivisto recentemente la prima versione cinematografica, quella del ’49, di Tutti gli uomini del re, di Robert Rossen, tratta dall’omonimo romanzo di Robert Penn Warren (premiato con il Pulitzer), vincitrice di tre Oscar come miglior film, miglior attore protagonista (Broderick Crawford) e miglior attrice non protagonista (Mercedes McCambridge), e poi rifatta con minor successo commerciale e critico, a dispetto del cast (Sean Penn, Jude Law, Kate Winslet, Anthony Hopkins, James Gandolfini) e del budget, nel 2006, da Steve Zaillian.

L’argomento centrale, presentato  con una prospettiva parzialmente diversa in almeno un altro post, è che l’esponente politico che sente la mia indignazione, la mia frustrazione, la mia stanchezza, la mia rabbia o la mia paura di cittadino e le fa proprie rilanciandole, però, con il megafono, in realtà, forse non mi sta ascoltando davvero.

Perché affermo che si può ipotizzare che non lo stia facendo?

Per diverse ragioni, La prima è questa: sta, certamente, rilevando i miei stati d’animo ma non mi sta aiutando a trasformarli in pensiero e quindi a contenere, bonificare e superare la loro portata disgregante. Psichicamente parlando non attenua la sofferenza ma semmai la potenzia. Se lo fa involontariamente allora si pone come il medico che di fronte al paziente sofferente si trova a soffrire con la stessa intensità, cioè non sperimenta una forma attenuata di identificazione che gli consente di comprendere, essere umanamente vicino, proporre ipotesi diagnostiche appropriate e tentare di curare, ma una forma di identificazione totale. Quel medico, infatti, che dovesse provare una simile esperienza emotiva, sarebbe completamente fuso con il paziente dal punto di vista psicologico e farebbe bene ad accorgersene prima di combinare qualche guaio dal punto di vista relazionale, se non anche sul piano strettamente clinico.

Quando nel linguaggio mediatico o in altre sedi si usa l’espressione “parlare alla pancia” da parte della politica, ci si riferisce all’azione comunicativa di questa intesa a proporsi come portavoce per lo più assecondante di vissuti assai sgradevoli da sperimentare: rabbia, paura, angoscia, ansia, indignazione, amarezza, risentimento, diffidenza, impotenza, frustrazione, dolore… Non si usa solitamente quell’espressione in riferimento ad emozioni o sentimenti quali la gioia, la soddisfazione, l’amore, l’appagamento, il senso di solidarietà e di fratellanza, la fiducia, ecc. E per questa ragione mi è venuto in mente il parallelo con il medico che ha a che fare con un paziente angosciato e dolorante.

Tornando al politico eccessivamente vicino ai vissuti dei cittadini tanto da farli propri e manifestarli con la stessa, o con ancor maggiore, intensità di comportamenti, potrebbe avere senso anche formulare l’ipotesi che, in realtà, “ci stia mettendo del suo”: cioè che, psicologicamente parlando, stia effettuando inconsapevolmente delle proiezioni di parti del suo mondo interno. Ma su questa eventualità tornerò più avanti.

Se, invece, l’identificazione del politico con il cittadino arrabbiato o impaurito è solo dichiarata ma non anche realmente vissuta e se, comunque, è posta in essere in piena consapevolezza, non è ozioso chiedersi se tale politico, preso dal conflitto e teso a far fuori politicamente l’avversario, isolandolo dall’elettorato, non stia tentando di strumentalizzare le emozioni altrui per i propri fini competitivo-conflittuali. Ad esempio, se mi lamento con un mio superiore del comportamento di un altro dirigente dell’azienda in cui lavoriamo e quello si mette a dare voce alla mia rabbia con manifestazioni anche più accese delle mie e inizia, a nome e per conto mio, una battaglia aspra per la defenestrazione di quel dirigente, occorrerebbe essere certi che le sue azioni non siano in realtà tese a perseguire un avanzamento nella gerarchia aziendale attraverso l’eliminazione di un competitore scomodo.

Spesso gli osservatori della politica per professione fanno constatare, senza denunciare troppa sorpresa, che questo atteggiamento di chi parla alla pancia dell’elettorato è posto in essere proprio soprattutto da chi sta all’opposizione e ambisce a diventare maggioranza di governo, annotando anche che, però, è adottato spesso anche dalle forze politiche di governo intente a conservare o aumentare i consensi.

Non si può negare, comunque, che il parlare alla pancia dal punto di vista della ricerca del consenso funzioni per lo più assai bene. Ma per quanto tempo, con quali costi e con quali esiti?

Le prime considerazioni che mi vengono in mente sono le seguenti.

In primo luogo, a trattare l’altro in termini infantilizzanti a lungo andare c’è poco da guadagnare. Infatti, se ti poni nei miei confronti con la volontà e nella prospettiva di essere soltanto colui che mi dà voce e non anche il mio interlocutore contenitivo dei miei vissuti, finisci con l’essere dapprima anche il mio “portapensiero”, poi per essere il cervello che pensa al posto del mio e infine il corpo che agisce per me le mie emozioni. Ma siccome senza l’attività cerebrale “la pancia” continua ad essere il mio vero dittatore, avendo io perso o non consolidato l’abitudine a ragionare in termini complessi e problematici, nel momento in cui le tue azioni non saranno più corrispondenti alle mie emozioni, il mio risentimento e la mia collera verso di te saranno di particolare intensità.

Dice Wilhelm Reich: «Lasciate che il redentore volti la schiena alla folla, lasciate che il pastore abbandoni anche per un solo giorno il suo gregge e la pecora si trasformerà in un lupo ululante e lo sbranerà».

Reich non dice “l’uomo”, ma la pecora. Non dice “le persone”, ma la folla. Se io parlo alla pancia e aspiro a manipolare l’emotività dei cittadini, non sto fornendo loro delle parole in termini di maternage, ma per impedire o ostacolare i loro processi di pensiero, poiché dell’incombenza del ragionare pretendo di occuparmi interamente io. Per questo la pecora, appena mi distraggo e allento questo tipo di legame, mi sbrana.

Infatti, rischi di essere un legame assai strano, questo, tra il rappresentante che si rivolge solo o prevalentemente all’emotività della cittadinanza e rappresentato che trova nel primo il verbalizzatore e il microfono dei suoi stati d’animo. Potrebbe richiamare da vicino quello tra i fan adolescenti e il loro idolo o quello implicato nella più accesa e scomposta tifoseria sportiva.

In ogni caso, andrebbe presa in considerazione l’ipotesi che non assomigli un granché a quello tra persone adulte e normalmente consapevoli di sé, che si riconoscono e rispettano reciprocamente come tali, e che presenti molte similitudini con quello tra soggetti che consapevolmente o no si usano l’un l’altro. Il che, peraltro, spesso avviene tra il soggetto idealizzato e coloro che lo idealizzano.

In secondo luogo, al di là del rischio cannibalico sopra esposto, mi pare che ve ne sia un altro di più significativa rilevanza politico-sociale: più sopra richiamavo la funzione del maternage. È noto, infatti (Bion W. R.), che la mamma e il papà – come, su altri fronti relazionali, il leader – hanno proprio la funzione di aiutare il bambino – nel caso del leader, il gruppo – a pensare, cioè a trasformare le esperienze emotive in pensieri lucidi. Il che vuol dire essere consapevoli della responsabilità derivante dal proprio ruolo, che è diverso da quello dell’altro. Rappresentante e rappresentato non stanno sullo stesso piano, infatti. Poiché uno è delegato dall’altro ad occuparsi di cose straordinarie e ordinarie che l’altro non ha il potere, le competenze, il tempo e, per lo più, neanche la voglia di gestirsi da sé. Quindi, tale ovvia asimmetria implica, mi pare, che sui temi che interessano gli ambiti della delega a rappresentare, il rappresentante dovrebbe assolvere anche, se non innanzitutto, alla funzione di tipo contenitivo-elaborativo.

Il compito del politico, rispetto ai vissuti emotivi dei cittadini, cioè, secondo una certa espressione, rispetto alla loro pancia, dovrebbe essere quello di aiutare l’assimilazione di ciò che serve per il bene comune così da permettere l’espulsione di ciò che non serve. Ma, se il politico non aiuta verbalizzare e neppure a pensare, il processo trasformativo di cui sopra non è agevolato e, invece, di liberare la pancia la fa ingolfare.

Uscendo da questa metafora poco poetica, mi pare che il rischio di un ipotetico rivolgersi continuamente alle emozioni dei cittadini non per accoglierle e riconoscerle, ma per accentuarle, significhi creare le premesse di una certa confusione, cioè palesare la tendenza a porsi sullo stesso piano dei cittadini. Il che equivale a dire, dal punto di vista relazionale, nel rapporto tra politico e cittadino, un abdicare da parte del primo ad uno degli aspetti, asimmetrici, intrinseci al ruolo.

Non si può escludere, però, che tale esito sia dia, a dispetto delle osservazioni sulla programmatica strumentalità del parlare alla pancia quale cinico metodo finalizzato al facile successo elettorale, anche in altre situazioni: cioè, quando il politico rivolto principalmente all’emotività della popolazione cui si rivolge è del tutto in buona fede.

Infatti, è possibile che qualche cittadino indignato, preoccupato e arrabbiato per come stanne le cose della politica, decida di dedicarvisi attivamente da protagonista, per combattere contro le ingiustizie presenti, e che, sapendo che le sue emozioni sono condivise da molti altri cittadini, li chiami a convergere su di lui, facendosene alfiere o portavoce. Fin qui, nulla di strano.

Ciò che, invece, può creare qualche rischio è che poi ponga in atto il suo essere conflittuale con le altre forze politiche, rivolgendosi al suo elettorato di riferimento (di cui magari cerca di allargare la cerchia) con le stesse modalità cui si proponeva quando era semplice cittadino. In tal caso, infatti, salterebbero le differenze di ruolo. Che ci sono e sono irrinunciabili, per quanto, si aspiri a ridurre il più possibile l’asimmetria tra rappresentante e rappresentato e a tentare di stabilire un rapporto da pari a pari.

Infatti, talora, si è portati a credere che tale asimmetria equivalga a distanza, magari siderale. A mio parere non è così. La distanza incolmabile si crea quando si è troppo vicini (quando “io sono te”) e ci si dichiara fieramente appiattiti sull’altro o si nega di esserlo, perché in entrambi i casi il dolore dell’uno diventa il dolore del secondo e non c’è nessuno che lo contenga. Se, riprendendo il parallelo di cui sopra, dico al mio medico che ho male ad un ginocchio e quello comincia a lamentarsi e a zoppicare, non mi sento supportato e preso in carico, ma a disagio e, se sono consapevole di tale mio stato d’animo, mi scuso ed esco sommessamente dallo studio, percependomi un po’ più solo di prima, finché non trovo un altro professionista. Se non mi accorgo di quanto sta accadendo, è anche peggio, perché inconsciamente tale dinamica relazionale produrrà dei risultati non favorevoli. Ugualmente mi sentirei abbandonato e lasciato solo se il medico, perché troppo coinvolto, assumesse, per proteggersi emotivamente, un atteggiamento freddo e distaccato, non mi guardasse neppure in faccia e si concentrasse solo sul ginocchio e non anche sull’intera mia persona che si appoggia su quell’arto. In questo secondo caso, come nel primo, per lo più non riuscirei a pensare e ad esporre tutte le esperienze che mi hanno portato a chiedere aiuto, potendo così dare luogo nella relazione (in realtà non tanto) terapeutica ad omissioni di informazioni potenzialmente foriere di errori diagnostici e/o terapeutici. In entrambe le ipotesi estreme (troppa vicinanza palesata o troppa vicinanza negata) si potrebbe verificare un’assenza di compliance tale per cui la cura non riuscirebbe: ad esempio, ritenendo che si sia allarmato troppo o non fidandomi del suo fare distaccato, non seguirei correttamente la terapia, magari azzeccatissima, che quel medico mi ha prescritto.

Analogamente: se ti delego in nome e per conto mio a combattere le mie battaglie politiche , che so essere anche quelle in cui tu credi, e tu ti rivolgi a me con la stesso stato d’animo che ho io, tra di noi non c’è empatia, anzi sono io che mi trovo a farti da specchio, cioè sono io ad essere chiamato da te per farti sentire riconosciuto e supportato e, magari, per darti conferme “narcisistiche”, mentre tu prelevi da me benzina emotiva per il nostro conflitto, ma non mi aiuti a stare dentro il dolore che questo conflitto e le sue cause mi procurano. Di più: non mi dai la possibilità di relazionarmi con te da pari a pari, perché mi costringi nel ruolo della vittima dell’ingiustizia, incasellandomi lì dentro, senza darmi l’occasione, nel rapporto con te, di essere tridimensionale, cioè una persona complessa e completa: riprendendo ancora una volta il precedente esempio di dirti  qualcosa sull’imprudenza che ha causato la mia sopravvenuta zoppia e sulle attese non realistiche che ho rispetto alla cura e che sono correlate al mio bisogno di essere fisicamente super-performante anche a ottant’anni suonati.

In conclusione, non si può escludere che il parlare alla pancia della politica sia frutto di una condizione politica conflittuale, nella quale, come per lo più accade nell’escalation, non c’è posto per le sfumature e per la complessità, e che tale mono-dimensionalità interessi, influenzandola negativamente in termini di autenticità, anche il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.

 

Alberto Quattrocolo

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