La politica della scorrettezza politica

Per alcuni anni pare esservi stata una forma di pensiero che, nutrendosi soprattutto inizialmente di un’ispirazione liberal e radical come movimento di idee sorto nelle università americane, dagli anni ottanta in poi, si é gradualmente affermata fino a diventare prevalente, se non dominante, riverberandosi anche sul piano normativo: si tratta della correttezza politica. Tale forma di pensiero ha inciso sulle forme della comunicazione, abolendo certe espressioni ed introducendone altre rispetto all’atto comunicativo di indicare determinate categorie di persone. Così, ad esempio, non si usano più termini come nullafacenti, minorati o negri, che sono stati sostituiti rispettivamente da disoccupati, diversamente abili e afroamericani. Il principio di fondo di tale linea di opinione e di atteggiamento sociale è che tutti gli esseri umani, proprio tutti, siano meritevoli di esseri rispettati proprio in quanto esseri umani. Ciò implica, soprattutto, prevenire l’adozione di una comunicazione che, nella forma e nella sostanza, risenta del pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.

La correttezza politica, com’è naturale, per qualunque opinione o movimento, è stata fatta oggetto di critiche, e a tale forma di pensiero se n’è affiancata un’altra, che richiamandosi alle contestazioni indirizzate a  quella e utilizzando l’espressione da essa coniata per definire ciò che andrebbe disapprovato, si è proposta come alternativa e originale: la scorrettezza politica. Anch’essa al pari della prima ambisce ad essere dominante.

Al di fuori dell’ambito della satira e, in generale, delle diverse forme di manifestazione culturale e dello spettacolo, dove spesso si perseguono finalità provocatorie e dissacranti, mi pare si possa dire che, reagendo alle prescrizione del politicamente corretto, spesso inteso come equivalente di ipocrisia, la scorrettezza politica proclami il principio della libertà di manifestazione del pensiero. Rifiutando l’omologazione, la scorrettezza politica aspira a dire le cose come stanno, senza edulcorarle, senza ammorbidirle, rivendicando, soprattutto, il diritto di abbattere nuovi e meno nuovi totem e di smontare i tabù.

Apparentemente il contrasto tra i due atteggiamenti si potrebbe dire facilmente componibile. Se, da un lato, nel politicamente corretto il principio tutelato è quello del rispetto della dignità altrui e, dall’altro, per l’atteggiamento politicamente scorretto, è quello della libertà di espressione, allora il punto di equilibrio parrebbe a portata di mano: ad esempio, ci si potrebbe richiamare al criterio per il quale la libertà dell’uno finisce là dove inizia quella dell’altro. Più in generale, si potrebbe concludere con un po’ di filosofia spicciola che sono indispensabili l’uno e l’altro tipo di pensiero e di atteggiamento. Tuttavia, il tema mi pare non solo al di là della mia portata ma anche degli orizzonti del blog dell’associazione. Suppongo che sia più opportuno limitare lo sguardo alle connessioni con lo sviluppo del conflitto.

Entrambe le forme di pensiero, infatti, si prestano ad entrare efficacemente nell’arena del conflitto, anche e, sotto certi aspetti, in primis in quello che ha rilevanza politica, dove sia il richiamo al rispetto della correttezza politica che la rivendicazione del diritto di parlare in modo politicamente scorretto finiscono spesso per essere esasperati e, in fin dei conti, stravolti. La correttezza politica può, ad esempio, essere invocata per emarginare, azzittire, reprimere, condannare e delegittimare le idee, le opinioni e i programmi dell’avversario. Ad esempio, si pensi a quando nel dibattito pubblico gli scambi comunicativi, sempre più irrorati dall’aggressività, sono all’insegna della scomunica delle tesi altrui, che vengono liquidate come espressive di un pensiero moralmente, eticamente o socialmente inaccettabile (ad esempio, ciò è accaduto nel caso degli scontri sui temi della sicurezza urbana, dei diritti civili, della giustizia, dell’immigrazione, del mercato del lavoro…); mentre la scorrettezza politica può essere tirata in ballo per nobilitare anche le più spregiative e a volte triviali forme di comunicazione disumanizzante.

In questa dialettica tra armi contrapposte, mi pare, però, che la seconda arma, quella del politicamente scorretto, abbia in generale maggiori chances di successo dal punto di vista offensivo per il confliggente che se ne serve. Infatti, l’escalation del conflitto, di per sé, è già caratterizzata dall’abbandono di una comunicazione rispettosa dell’altrui sensibilità e dall’approdo ad una comunicazione aggressiva, caratterizzata da attacchi ad personam, colpi bassi, spersonalizzazione e perfino deumanizzazione dell’avversario, trasformato in un nemico, quando non in un mostro. Dunque, la scorrettezza politica ne costituisce un ingrediente naturale. Svolgere un’operazione comunicativo-culturale (parallela allo specifico conflitto politico disputato) per rendere socialmente accettabile la scorrettezza politica, significa, perciò, assai spesso tentare di procurarsi un alibi morale all’impiego di mezzi conflittuali particolarmente aggressivi: la squalificazione, l’umiliazione, la delegittimazione e la deumanizzazione dell’avversario (si pensi a quando si insulta l’avversario chiamandolo despota, sciacallo, corrotto, ladro, eversivo, mafioso, golpista, assassino, ecc.) o di una particolare categorie di persone che l’avversario afferma che dev’essere invece trattata in un certo modo (si pensi alla qualificazione dei giudici come mentalmente disturbati e antropologicamente diversi; alla definizione di clandestini affibbiata a dei richiedenti asilo, cioè – tanto per chiarire a beneficio di eventuali lettori “non addetti ai lavori” -, a coloro che stanno esercitando un diritto fondamentale previsto dall’ordinamento italiano oltre che da quello internazionale e pertanto non sono illegalmente presenti sul territorio nazionale).

Lo sdoganamento culturale della scorrettezza politica a fini conflittuali è un mezzo facile, e non così originale, per procurarsi immediati e cospicui vantaggi bellici anche sul piano dell’acquisizione del consenso da parte di quote non trascurabili di pubblico. Poiché, è vero che il politicamente scorretto, elevato per ragioni conflittuali a principio, a filosofia di vita, a codice comunicativo moralmente superiore alla correttezza politica, in virtù della sua asserita autenticità, in realtà, autorizza e sollecita la slatentizzazione e l’esplicitazione di quelle pulsioni aggressive che   nel nostro percorso di crescita abbiamo imparato a gestire, ma è anche vero che chi propone un allentamento dei freni inibitori beneficia di una certa popolarità. Infatti, quando siamo surriscaldati ci risulta assai più gradito il messaggio di chi ci esorta a dire quel che pensiamo senza sforzarci di considerare la sensibilità altrui, rispetto a chi ci chiede di contare fino a dieci prima di parlare.

Tuttavia, potrebbe non essere superfluo riflettere sul fatto che oltre al ruolo di commentatori politicamente scorretti delle caratteristiche e dei comportamenti altrui, può toccarci in sorte di essere oggetto di analoghi commenti. Nella vita capita di essere, infatti, non solo aggressori ma anche aggrediti. E, se il nostro aggressore può contare sulla tolleranza o perfino sull’approvazione sociale per il male che ci vuole infliggere, si riducono vistosamente le nostre possibilità di essere tutelati dalla comunità.

Un tempo alcune società applicavano la messa al bando, una punizione consistente nel privare il soggetto condannato di ogni possibilità di beneficiare della solidarietà altrui e di appellarsi alla tutela del gruppo in caso di crimini commessi a suo danno. Perciò, chiunque era libero di danneggiare il soggetto messo al bando, anche letalmente, senza incorrere in alcuna forma di sanzione o di biasimo.

Il dominio del politicamente scorretto rischierebbe di portarci proprio lì: di essere tutti suscettibili di venire messi al bando dal punto di vista sociale e culturale e, quindi, abolita ogni forma di vergogna a fare da deterrente morale, di essere resi ancora più vulnerabili di quanto già non si sia rispetto alla violenza (diretta o indiretta). E questo ci riguarda tutti, poiché chiunque di noi possiede almeno una caratteristica (fisica, psicologica, culturale, sociale, di ruolo, ecc.) che lo pone ai margini o decisamente fuori dal gruppo dominante. Sicché non occorre una fantasia apocalittica per preoccuparsi delle conseguenze di un’applicazione distorta, a fini conflittuali, del principio ispiratore della scorrettezza politica.

In altre parole, una società dominata dalla correttezza politica può risultare soffocante e soffocata (anche nelle sue potenzialità creative), ma una società sintonizzata prevalentemente sulla scorrettezza politica potrebbe essere un incubo, ammantato di apparente libertà di espressione, di facoltà di trasgredire, ma in realtà regolata dalla disciplina violenta e oscurantista della legge del più forte.

Infatti, quando il politicamente scorretto diventa il pensiero dominante e alza l’asticella dell’offesa e della discriminazione consentita, si stabiliscono in realtà soltanto altri parametri di correttezza politica che vanno a sostituire i precedenti: in particolare, quelli favorevoli alla visione e agli interessi di chi ha vinto o sta prevalendo nella disputa. E difficilmente ciò rappresenta qualcosa di diverso da una regressione.

Se si vuole pensare in termini un po’ esasperati e catastrofici agli effetti del trionfo di una scorrettezza politica ante-litteram andata al potere, si possono considerare gli esempi storici del fascismo, del nazionalsocialismo e dei diversi totalitarismi di marca comunista, i programmi purtroppo realizzati di “pulizia etnica, culturale o politica”, oppure le società governate nel segno dell’integralismo religioso e l’ulteriore esasperazione rappresentata dallo Stato Islamico. Come disse Giacomo Matteotti nel suo ultimo discorso alla Camera il 30 maggio 1924: «Voi volete ricacciarci indietro!».

Pensando in termini assai meno drammatici, direi quasi minimalisti, si può, ad esempio, ipotizzare che sia stato ridicolizzato come “buonismo”, in primis dalla parte politica vincitrice (e, in vero, in seguito un po’ da tutti), essendo ritenuto sostanzialmente dissonante con il suo modo di intendere la comunicazione politica, un atteggiamento teso al riconoscimento dell’altro, all’attenzione ai suoi argomenti e alle sue ragioni e quindi orientato a evidenziare la naturale e crescente complessità dei problemi. In tal modo, una modalità relazionale non autoreferenziale ma propensa all’ascolto dell’altro, potrebbe essere stata definitivamente delegittimata e distorta, grazie anche all’invenzione e alla diffusione della suddetta denominazione  squalificante, cioè, in definitiva, proprio con l’arma della scorrettezza politica promossa a valore, da impiegarsi in una o più contese elettorali esasperatamente conflittuali.

Ciò che oggi si liquida sbrigativamente come buonismo, in effetti, non era l’idealizzante, ingenua e pervicacemente ottimistica visione della realtà che evoca quella parola, ma la consapevolezza, anche scomoda, se si vuole, che l’avversario ha le sue ragioni, che ha il diritto di dirle senza essere preso in giro, denigrato o insultato e, ancor prima, che la convivenza in una famiglia o in qualsiasi altra comunità di piccole o grandi dimensioni è resa possibile proprio dalla quotidiana applicazione del principio “non fare ad altri quello che non vorresti venisse fatto a te stesso”. È la cosiddetta regola d’oro o della reciprocità, antropologicamente considerata come universalmente valida, pur con le ovvie varianti, tanto che le sue radici sono esplicitate, ad esempio, nella filosofia greca antica, nell’ebraismo, nel confucianesimo, nel cristianesimo, nel buddismo e nell’islam.

La degradazione a buonismo delle tesi altrui nell’ambito del dibattito politico, dunque, si rivela di particolare efficacia comunicativa, in un’ottica conflittuale, poiché permette di mettere in ridicolo e togliere credibilità agli argomenti su cui quelle tesi poggiano, senza dover svolgere grossi sforzi di confutazione. Inoltre, se, imbarazzando l’interlocutore con l’accusa di “buonismo”, lo si induce, se non a vergognarsi a dover negare di esserlo, è possibile anche che si apra la via ad un “cattivismo” di fatto se non di nome, particolarmente comodo quando, nel dibattito, si vuole lusingare la rabbia o l’odio dell’audience verso questo o quel bersaglio (un leader o portavoce di un partito o movimento, una sindaca, un gruppo professionale, un ceto sociale, ecc.)?  

In parte, almeno, parrebbe di sì, visto che, in nome della schiettezza, si sdogana anche la possibilità di dare voce e talora attuazione concreta anche ai più pesanti pregiudizi, approfittando della loro diffusione e della loro forza. Una forza legata al fatto che di essi non siamo consapevoli, poiché siamo convinti che i loro contenuti, in realtà falsi, siano la verità.

In conclusione, la scorrettezza politica adottata come arma nel conflitto politico, appare pericolosa tanto quanto se non di più della correttezza politica, poiché da istanza libertaria, al limite anche trasgressiva, può finire con l’essere strumentalizzata ai fini della discriminazione e della repressione.

Alberto Quattrocolo

2 commenti
  1. Carlo Loiodice
    Carlo Loiodice dice:

    Esemplificazione. Sono cieco. Naturalmente è un problema per me. Ma pare esserlo anche per coloro che si sentono imbarazzati nel pronunciare la parola, per cui posso essere definito ‘non vedente’, ‘disabile visivo’, ecc, così come un negro può esser detto ‘persona di colore? O un marocchino ‘magrebino’.
    Recentemente nella comunicazione pubblica in luogo di ‘cieco’ viene usato il termine ‘ipovedente’, creando non poca confusione.
    Imbarazzante, dicevo, perché, disponendo di due codici, il politicamente corretto e il politicamente scorretto, in quella data situazione chi parla non sa quale dei due è il caso di adoperare e chi ascolta non sa in che senso interpretare.
    Ci si chiarisce un po’ la questione se, invece dei significati letterali, prendiamo in considerazione gli usi figurati delle parole incriminate.
    Per strada c’è uno che viene a sbatterti contro. «Ma che sei cieco?» Stigma… Qui il politicamente corretto non ci soccorre. Provate a dire:«Ma che sei disabile visivo?» A quel punto l’altro, invece di chiedere scusa per essersi distratto, ti guarderebbe perplesso, non sapendo bene come comportarsi con un radical chic.
    Imagginiamo ora che sia il sottoscritto che andando per strada sbatte contro uno che si è fermato ad accendersi una sigaretta.
    Reazione: «Ma che sei cieco?»
    Premesso che chiedere scusa è cosa che si fa comunque, gli devo rispondere di sì, o manifestarmi come tale. E a quel punto è l’altro a profondersi in scuse aggiungendo: «Non me n’ero accorto!» Ma come poteva accorgersene se era girato? E anche se se ne fosse accorto, non poteva mica guarirmi!
    Dal che s’intuisce che sotto questo epifenomeno c’è tutto un non detto; ed è con questo non detto che dovremmo riuscire a fare i conti.
    Da qualche anno noto una modificazione in questo discorso a misura che mi capita d’incrociare persone straniere: dell’est europeo, del nord Africa o dei più vari sud. Quando mi chiedono se ho bisogno di aiuto, per esempio nell’attraversare una strada, nel dialogo tutto fila più liscio e sento anche un forte senso di empatia.
    Non so dare ancora una risposta calibrata. Ma credo di dover cercare nella differenza che corre fra compassione e solidarietà. La prima ha bisogno di mistificazione (il politicamente corretto lo è); la seconda no. E il politicamente scorretto? Come l’articolo lascia intendere, anche quella è una forma di mistificazione.

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    • Alberto Quattrocolo
      Alberto Quattrocolo dice:

      Grazie, sig. Carlo, per il commento, per gli esempi (personali) portati e per gli spunti di riflessione proposti, che mi paiono non solo particolarmente pertinenti, ma anche illuminanti.
      Riguardo al tema dell’empatia e a quello della solidarietà proposti in chiusura del commento, francamente sono proprio d’accordo. Ho l’impressione, infatti, che proprio su quel registro si giochi la differenza tra correttezza e scorrettezza nel rapportarsi al prossimo. Detto in altri termini, suppongo che c’entri l’intenzione con cui diciamo le cose, l’animo con cui ci rivolgiamo all’altro, pur essendo vero che talora la forma è anche sostanza.
      Sig. Carlo, se non le spiace mi permetto di aggiungere che gradirei davvero sapere il suo parere anche su altri post – l’ultimo ad esempio -, poiché considerazioni come quelle da lei svolte non solo danno un senso a questo blog, ma mi aiutano anche a pensare.

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