mediazione empatia

La mediazione e l’empatia

Il dolore procurato dal conflitto o che lo ha provocato non può condizionare la decisione di un tribunale

Può il sistema giudiziario dare risposte ad interrogativi sul senso di una lite? Può dare riscontri, accoglienza e risposta sul valore che i rapporti hanno avuto e/o conservano tra le parti? Può una pronuncia giudiziaria trasformare, ad esempio, due ex coniugi in persone in grado di nutrire una fiducia reciproca rispetto alle capacità di assolvere le funzioni genitoriali?

Tali quesiti scaturiscono dal rilievo che il sistema giudiziario non è pensato per contenere ed elaborare alcuni aspetti della vicenda sottoposta al suo giudizio.

Del resto la pronuncia dell’Autorità Giudiziaria non è finalizzata quasi mai a risolvere il conflitto sul piano relazionale. La decisione del Tribunale, infatti, non riporta automaticamente la serenità tra le parti, non placa il rancore, non rimargina le ferite.

…ma dev’essere al centro di una mediazione svolta con empatia

Queste ferite, però sono spesso la radice del conflitto, la sua portata emotiva e affettiva, le sue conseguenze sull’interiorità dei protagonisti. E, più che all’interno dell’aula di un tribunale, possono essere accolte e, soprattutto, riconosciute all’interno di un percorso di mediazione.

In particolare, un’attenzione speciale alla dimensione emotiva e affettiva del conflitto è posta da quei paradigmi di mediazione che considerano aspetto fondamentale dell’agire mediativo l’empatia declinata mediatore.

L’attività del mediatore non è solo la soluzione del problema-conflitto

Infatti, se l’attività del mediatore si riducesse ad un approccio di «problem solving» e si proponesse come fine la «risoluzione del conflitto», tale fine diventerebbe il presupposto dell’agire del mediatore e ne determinerebbe le modalità di relazionarsi con le parti.

In tal caso, però, i vissuti delle persone coinvolte nella relazione conflittuale troverebbero davvero spazio ed ascolto da parte del mediatore?

L’importanza di questa domanda è palesata da un’altra, ad essa inestricabilmente connessa e che sempre dovrebbe guidare l’agire relazionale, cioè: al termine di una mediazione orientata solo al “problem solving” si può parlare di una «soddisfazione» del confliggente?

Per rispondere ad un simile interrogativo occorrerebbe intendersi sul significato dell’espressione “soddisfazione”. Probabilmente, sotto un certo profilo, la risposta è affermativa, se la controversia si è chiusa con un accordo che ha fatto venire meno le ragioni razionali e comportamentali della lite. L’aspetto critico, tuttavia, sta nel valutare se si sono risolte anche le ragioni di natura “non razionale” che stanno alla base del conflitto, cioè quegli elementi cognitivi ed emotivi che hanno reso necessario ai protagonisti della vicenda il ricorso ad un professionista esterno per la gestione del conflitto.

Il rischio, infatti, nell’adottare un metodo orientato esclusivamente al “problem solving” è che, al termine di una mediazione, venga meno (temporaneamente?), l’oggetto esterno del conflitto – che si trovi cioè un accordo, ad esempio, sulla ripartizione dei beni ereditati, sulla liquidazione di un danno, sull’affidamento dei figli, ecc. -, ma che l’ostilità rimanga. E, accanto ad essa, sopravviva una sensazione di mancato chiarimento e, più in generale, un sentimento di vuoto, la mancanza di un vago ma scottante quid (sul quale torneremo più avanti), per cui risulta difficile per i protagonisti di quel conflitto dirsi soddisfatti e riuscire a spiegare le ragioni della propria parziale insoddisfazione.

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L’obiettivo di una mediazione è rimettere ciò che il conflitto toglie: il riconoscimento

Se, però, il fine di una mediazione non fosse quello di ottenere un risultato predefinito (la pace e l’accordo che disciplina gli aspetti materiali e immateriali del rapporto futuro tra le parti), ma avesse come principale obiettivo quello di far sì che ciascun soggetto possa sentirsi riconosciuto, verrebbe colmato un vuoto. La mancata soddisfazione del bisogno di riconoscimento, infatti, è spesso (per non dire sempre) uno dei fattori alla base dell’innescarsi di un conflitto. E, d’altra parte, il conflitto, per struttura intrinseca, genera un meccanismo che annulla il riconoscimento dell’altro e spesso sorge proprio dal comportamento o dall’atteggiamento dell’altro che genera una percezione di mancato riconoscimento. Con il progredire dell’escalation, il conflitto, poi, arriva, nei casi più estremi – ma non è un fatto raro – a distogliere i due soggetti coinvolti dal considerare l’altro una persona, quando non addirittura un «essere umano»: a seguito della sofferenza provata da ciascuno per non essersi sentito riconosciuto (il che crea un vulnus al sentimento di dignità), la rabbia conseguente e il bisogno di affermare insieme alle proprie ragioni anche l’imposizione del proprio esistere, traducono l’altro nella figura del «nemico», con una distribuzione dei ruoli di «vittima» e «carnefice», che finisce appunto, col relegare gli individui ad un ruolo, ingabbiandoli dentro una maschera.

In ragione di ciò, si può cogliere l’importanza dell’ascolto, di un ascolto empatico (si è fatto più volte riferimento a tale aspetto, in questa rubrica, Riflessioni: ad esempio, nel post L’ascolto empatico: un ingrediente irrinunciabile dei percorsi di mediazione dei conflitti) da parte del mediatore, che, a lungo andare accompagna il superamento della bidimensionalità in cui i due soggetti coinvolti si sono reciprocamente appiattiti.

Il mediatore, sotto questo profilo, si ritrae da se stesso, nel senso che non si pone come soggetto giudicante (cioè di soggetto portatore di principi e di valori e incline ad affermarli di fronte ad un fatto di cui è testimone), per proporsi come specchio, non distorcente, dei vissuti dei contendenti. In tal modo, restituisce loro tridimensionalità. In breve, l’obiettivo è riconoscere e far sentire riconosciuta la persona.

Il mediatore ha a che fare con delle persone non con delle parti

Ciò presuppone nel mediatore, però, la capacità di guardarsi dalla tentazione di forzare le persone al riconoscimento reciproco, cioè dal rischio di trattarle, non come persone, ma come parti.

È da questo accorgimento, costantemente mantenuto durante tutto l’iter del percorso, infatti, che sorge quella possibilità di liberazione dal ruolo che costringe gli individui nella logica ferrea e disumanizzante del conflitto.

Tale criterio, d’altra parte, è saldamente legato all’astensione dei mediatori dal porre in atto dei tentativi di induzione alla conciliazione. Tentativi che, se fossero dispiegati, rigetterebbero le persone nelle condizioni di parti ed equivarrebbero a delle censure su ciò che pensano e/o provano, configurando, ancora una volta, una compressione di quella libertà di provare sentimenti e di esprimerli che una pratica di mediazione intrisa di empatia deve rispettare e garantire.

I tentativi di riappacificare, d’altra parte, come dimostra l’esperienza, vengono non solo per lo più respinti, ma sono ancora più dannosi – un danno sotterraneo, ma degli effetti corrosivi – se, per stanchezza, sfinimento o accondiscendenza, i protagonisti dell’incontro li accolgono. In tal caso, infatti, spesso accade che:

  • la pace raggiunta è soltanto temporanea e apparente, pronta a ritrasformarsi in schermaglie o in lotta mortale,
  • l’esperienza della mediazione viene vissuta come un’esperienza dolorosa, ma improduttiva. In ultima analisi, come un tradimento del patto stipulato con il mediatore.

L’empatia non si impara ma si affina

Essenziale, dunque, è per il mediatore accogliere e riconoscere anche tutti quei sentimenti che paiono chiudere le porte a delle possibilità di mediazione; non farlo significherebbe prestare un’attenzione selettiva, interessata e guidata soltanto dai propri obiettivi. E ciò potrebbe creare una condizione relazionale ambigua tra il mediatore e i soggetti che ad essi si sono rivolti: il rischio, infatti, è che i primi possano assumere – o essere percepiti come se avessero – un atteggiamento di superiorità (morale, intellettuale, psicologica), sicché i fruitori della mediazione, anziché sentire la comprensione del professionista, finiscono con l’avvertire una condizione di forte asimmetria. Come se fossero alla presenza di un saggio, che conosce dei loro guai e delle loro sofferenza più di quanto essi stessi non conoscano. Il mediatore, però, non è più saggio dei mediati, non ha una maggiore conoscenza delle cose della vita, e l’unica differenza che lo “avvantaggia” – fatta salva “la preparazione tecnica” – è che il conflitto che si trova a gestire non gli appartiene.

Per queste e altre ragioni, se si vuole lavorare come mediatore (familiare o penale, in ambito organizzativo o in ambito sanitario), è indispensabile che la formazione seguita sia quanto più possibile esperienziale e offra la possibilità di sperimentarsi ripetutamente nel ruolo di terzo e nel ruolo di parte del conflitto. Quest’ultima condizione, infatti, è quella che permette più efficacemente di verificare su di sé come alcune comunicazioni del mediatore siano davvero di aiuto, supportino la riflessione e sblocchino, mentre altri interventi irrigidiscano e irritino le parti, inducendole a chiudersi e arroccarsi.

L’empatia è una dote innata per gli esseri umani, ma il suo impiego consapevole può e deve essere affinato. A ciò dovrebbe, in primo luogo, tendere un percorso formativo per chi vuole sperimentarsi in tale ambito professionale e su tale aspetto non è inopportuno insistere anche nell’attività di supervisione per questi professionisti.

Alberto Quattrocolo

1 commento
  1. Bruno
    Bruno dice:

    Bellissimo, coglie fino in fondo il vero senso di un percorso di mediazione e la preparazione personale di cui si necessita per mettere in moto il processo. Grazie

    Rispondi

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