La libertà della mediazione, tra “prassi” e “tecnica”

Avevo pensato di proporvi una storia per iniziare, che, mi sembra, calzi a pennello. Questi tipi di storie sono, a mio parere, di grande interesse, tant’è che l’ho proposta come spunto di riflessione anche nell’ultima supervisione svolta, citando la figura di Ifigenia, in particolare, per come venne proposta da Euripide.

Oggi la riprendo brevemente nella “versione” di Eschilo, collocandola nella storia della famiglia di Agamennone, che, appunto, narrò Eschilo nell’Orestea.

Perché è una storia importante ancora oggi, per noi che ci occupiamo di mediazione dei conflitti e di mediazione familiare?

Vi leggo le parole con cui descrive le relazioni all’interno di questa famiglia Raffaele Cantarella:

 Eschilo suggerisce che la prospettiva da cui guardare le azioni umane è duplice, ambivalente. Agamennone ha sacrificato Ifigenia non per capriccio, bensì per obbedire ad un bisogno del suo esercito, potremmo dire la ragione di stato. Per Clitennestra queste motivazioni, pur se reali e oggettive, non valgono. Individua la colpa terribile del marito nell’assenza di pietas per la figlia innocente. Approcci opposti dunque, inconciliabili. La tragedia li porta in scena esasperandoli fino alle estreme conseguenze a beneficio della riflessione di chi assiste.

Parto da questo punto di vista, poiché, secondo me, il teatro greco è emblematico e ricco di spunti per leggere molte situazioni di conflitto. Ora, è vero che, per fortuna, come mediatori, non assistiamo a conflitti di questo tipo, ma simbolicamente questa è un’immagine incredibilmente potente ed efficace.

Abbiamo a che fare, dunque, con un genitore che sacrifica la propria figlia a beneficio del Paese in cui vive e per svolgere una guerra che è mossa da motivi di puro orgoglio. Con l’Agamennone siamo in una fase che potremmo dire di “diritto privato” o, meglio, di “diritto arcaico”. Ma c’è un’evoluzione in Eschilo, poiché questa storia si sviluppa in una trilogia che comprende anche le Coefore e le Eumenidi.

Se le Coefore erano semplicemente quelle donne troiane che, quando Agamennone venne ucciso da Clitennestra, portarono dei doni sulla sua tomba. Le Eumenidi erano meglio conosciute come le Erinni ed erano delle divinità che perseguitavano coloro che si erano macchiati di atti empi, immorali, contro la famiglia.

Diventa, allora, estremamente interessante in questa ultima tragedia della trilogia vedere come proprio nell’ultimissima parte ci sia l’istituzione da parte della dea Atena di un tribunale.

In questa trilogia, quindi, si segna il passaggio dal diritto privato, cioè da un diritto basato sulla forza e sulla vendetta, ad un diritto che si esercita all’interno della polis. La polis è la città. È la comunità in cui noi ci ritroviamo come individui, come cittadini. Quindi, quando come mediatori parliamo di politica, di ministri, di tribunali, dobbiamo considerare che in mezzo a quegli “oggetti”, apparentemente astratti, ci siamo anche noi. Perché anche noi siamo (in) quell’istituzione lì. Lo siamo come cittadini. Però, a me viene da dire che lo siamo anche come mediatori.

Era questo ciò a cui intendevo arrivare. Cioè, precisare che la mediazione non è una pratica che si realizza al di fuori delle istituzioni. La mediazione, attualmente, sempre di più si inserisce in questo quadro di insieme.

Ora, cosa ce ne facciamo della mediazione in quella che abbiamo definito una società sempre più arrabbiata?

La mediazione può avere questa funzione che è quella di prestare ascolto alla cittadinanza e porsi in qualche modo come intermediaria, come cinghia di trasmissione tra la cittadinanza e la politica. Fra la cittadinanza e l’istituzione. Perché è chiaro, da un punto di vista manualistico, ideale, che noi siamo l’istituzione, ma è anche vero che, in questo momento storico, non possiamo non notare che tra i cittadini e l’istituzione c’è una sorta di separazione (o almeno questa è la percezione che si ha).

Invece la mediazione, dal mio punto di vista, può avere un grandissimo ruolo, insieme a tante altre buone pratiche, affinché si rinsaldi il legame sociale.

A questo punto, mi sembra fondamentale pensare al concetto di obbligatorietà della mediazione. Un concetto, questo, che è stato molto dibattuto, soprattutto nell’ultimo anno prima della caduta del governo giallo-verde, a metà agosto.

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Perché se la polis, la città, lo stato, è il luogo in cui il cittadino esercita la propria libertà, come può uno stato obbligare il cittadino a seguire, un percorso contro la propria stessa volontà? Sono rari i casi in cui lo stato è tenuto per la sicurezza di tutti a esercitare la propria forza.

Ma siamo sicuri che vogliamo che la mediazione diventi obbligatoria?

Alla fine di tutti gli interventi spero si apra un dibattito e credo che questa sia una delle cose che più interessanti: sentire anche le vostre voci.

Personalmente sono d’accordo con l’obbligatorietà del primo incontro informativo, ma credo che di questo si sia parlato in più occasioni anche in altre sedi. Se, invece, fosse l’intero percorso ad essere reso obbligatorio, allora la questione diventerebbe sempre più problematica. Infatti, in questo momento, come ricordava Isabella Buzzi, stiamo andando verso una società che è sempre più tecnicizzata, burocratizzata, e mi vien da dire che alla razionalità pratica vera e propria, si sostituisce una razionalità tecnico procedurale, la quale è così concentrata sui mezzi attraverso cui raggiungere i fini che non riflette sulla bontà dei fini stessi.

Quindi, capite che quando la razionalità politica, che è quella che dovrebbe riflettere sulla bontà dei fini, si affida solo e unicamente sulla correttezza delle procedure da seguire, diventa una razionalità francamente fallimentare. A questo punto, da mediatore, ma soprattutto da cittadino, mi chiedo, come società, stiamo andando nella giusta direzione?

Tratto dall’intervento di Maurizio D’Alessandro Obbligatorietà dell’intervento mediativo. La libertà tra “prassi” e “tecnica” nell’esperienza del progetto SOS CRISI nel convegno Le nuove frontiere della mediazione. Il futuro della mediazione in una società sempre più “arrabbiata”.

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