L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»

L’8 novembre del 1960, John Fitzgerald Kennedy, «un idealista senza illusioni», vinse le elezioni e divenne il 35° presidente degli Stati Uniti d’America.

Un’agiata giovinezza attraversata anche dal dolore e dall’angoscia

John Fitzgerald Kennedy (Brookline, Massachusetts, 29 maggio 1917), era il secondo dei nove figli di Joseph Patrick Kennedy e di Rose Fitzgerald, e anche se apparteneva all’élite e, come egli disse James Mc Gregor Burns, suo biografo nella campagna elettorale del 1960, gli anni della sua formazione furono quelli di chi ha il privilegio di condurre «una vita agiata, prospera, assistita da domestiche e bambinaie, con sempre più sorelle minori con cui giocare e da comandare», fu anche attraversato dal dolore e dalla conoscenza diretta dell’orrore[1].

Quando gli venne chiesto se qualcosa avesse mai turbato la sua infanzia, ricordò soltanto la competizione con su fratello Joseph. Joe era il primogenito ed egli sentiva che era migliore di lui in tutto. E, dato il tipo di educazione che il padre e la madre proponevano ai loro figli, l’essere bravi, determinati, combattenti e preferibilmente vincenti, per John Kennedy – ma tutti lo chiamavano Jack – faceva la differenza tra il sentirsi vivi e meritevoli d’amore e il non esserlo. E, come tutti i bambini, anche Jack aveva bisogno d’amore. Non poteva essere appagato, però, questo suo bisogno dalla madre, Rose, che scoraggiava ogni manifestazione emotiva o affettiva e ogni contatto personale. Una madre «terribilmente religiosa, un po’ distaccata», la definì lui da adulto,[2].

 

Una non comune capacità empatica

Occorre considerare, tuttavia, che Rose non era affatto una madre egoista o distratta, ma una donna che doveva provvedere a un numero considerevole di figli, una dei quali, la terzogenita, Rosemary, nata nel 1918, pativa le conseguenze di un deficit di ossigeno durante il parto [3]. A lei Rose riservò un attenzione e un affetto incondizionati e aiutò i fratellini ad essere sempre dolci e premurosi con lei[4]. Jack, quindi, sviluppò fin da bambino una non comune comprensione per la sofferenza umana. William Walton, un amico, disse che Jack aveva una «meravigliosa capacità di mettersi nei panni degli altri». Non si contano gli episodi in cui dette prova di questa disposizione empatica verso l’altro.

Da un’infermità all’altra

Per Jack, oltre alla scarsa vicinanza emotiva della madre e a questo rapporto competitivo con il fratello maggiore, verso il quale aveva un amore e un’ammirazione sconfinati, però, vi erano altre fonti di sofferenza. Dall’età di tre anni non aveva passato un anno senza avere qualche rilevante disturbo fisico.[5] A tredici anni, poi, iniziò a soffrire di una malattia mai diagnosticata che limitò moltissimo le sue attività. Quell’autunno perse due chili ed ebbe frequenti svenimenti. Negli anni seguenti le sue condizioni non migliorarono di molto[6]. Alla fine del 1940 iniziò ad accusare dolori fortissimi alla schiena e nel ’44, chiusa la parentesi militare, fu sottoposto ad un intervento chirurgico che evidenziò un deterioramento della colonna lombare.

In breve, John Kennedy ebbe per tutta la vita seri problemi di salute. Il morbo di Addison, gravi problemi alla schiena e alla prostata, la colite lo fecero sempre soffrire terribilmente[7]. Tutto ciò lo portò probabilmente a cercare di compensare l’angoscia per una morte costantemente avvertita come imminente con un’attività sessuale compulsiva, ma gli fece anche sviluppare ulteriormente quello stoicismo che nella sua famiglia era considerato un atteggiamento irrinunciabile.

L’interesse precoce di Jack Kennedy per la politica

Nel ’35 si iscrisse all’Università di Princeton, ma dovette lasciarla per avere contratto l’itterizia. L’autunno dopo passò ad Harvard. Nell’estate del ’37 il padre spedì Jack e il suo amico Lemoyne Billings a fare un lungo tour in Europa, dove poté, tra le altre cose, appagare la sua curiosità per le vicende della politica internazionale[8].

Nel dicembre del ’37 il presidente Roosevelt nominò Joseph P. Kennedy ambasciatore in gran Bretagna, la più prestigiosa carica diplomatica degli Stati Uniti[9]. Ciò offrì a suo figlio Jack l’eccezionale opportunità di trascorrere l’estate del ’38 lavorando presso l’ambasciata di Londra[10].

Egli tradusse le sue esperienze di viaggio, i suoi studi, accademici e non, in una tesi di laurea di 148 pagine intitolata Appeasement a Monaco, che poco dopo trasformò in un libro (Perché l’Inghilterra dormì), che ottenne non soltanto buone recensioni ma anche successo commerciale negli USA e in Gran Bretagna.

Abile e arruolato

Nell’autunno del 1940, il ventitreenne Jack ricevette la chiamata dall’esercito. I suoi problemi di salute gli avrebbero consentito una facile via d’uscita, ma egli voleva essere arruolato. Perciò, quando fu riformato sia dall’esercito che dalla marina, non si arrese e chiese al padre a raccomandarlo. Suo fratello Joe, infatti, era stato preso dalla marina nella primavera del ’41 ed egli non poteva essere da meno.

Venne arruolato nell’ottobre del ’41 e adibito ad un lavoro di scrivania dell’Office Naval Of Intelligence. Poi arrivò l’attacco giapponese su Pearl Harbour del 7 dicembre e gli Usa entrarono in guerra. Anche questa volta Jack non poteva tirarsi indietro. Fu spedito nel Pacifico, dove partecipò a diverse missioni, conseguendo il grado di sottotenente di vascello e il comando della motosilurante PT-109, con base nell’arcipelago delle isole Salomone. Nelle sue lettere dal fronte esprimeva ammirazione e stima per gli uomini a bordo dei PT, ma non credeva nell’eroismo e non sopportava la retorica. La notte del 2 agosto ‘43 un cacciatorpediniere giapponese speronò la sua motosilurante, uccidendo sul colpo quattro marinai. Jack, scampato all’effetto letale dell’urto, riuscì a provvedere sostanzialmente da solo al salvataggio del resto dell’equipaggio. Il coraggio e l’abnegazione dimostrati per salvare i suoi uomini gli vennero riconosciuti ufficialmente con la Navy and Marine Corps Medal [11]. Quando un giovane scettico, alla fine della guerra, gli chiese come avesse fatto a diventare un eroe: «È stato facile», rispose, «mi hanno affondato la nave».

La morte di Joe Jr. e gli ulteriori problemi di salute

Le enormi fatiche sopportate nel salvataggio del suo equipaggio per lo avevano terribilmente debilitato. Inoltre, contrasse la malaria: quando rientrò in patria, Jack, alto un metro e 83 cm, pesava solo 58 kg e soffriva dolori intollerabili alla schiena. Venne operato alla fine di giugno del ‘44, come si è già accennato.

Ad agosto l’areo su cui volava suo fratello Joe, era esploso in volo, nel corso di una missione volta a colpire le basi tedesche in Belgio da cui venivano lanciati i V-1 che terrorizzavano Londra. Per Jack fu un colpo tremendo. E subito dopo suo cognato, marito di suo sorella Kathleen, fu ucciso in Belgio da un cecchino tedesco.

Inoltre Jack continuò a stare male diverse volte, dovendo subire dei ricoveri d’urgenza (soffriva anche di duodenite diffusa e colite spastica), sicché, dopo ulteriori visite la commissione medica della marina, lo inserì nelle liste di congedo dal 1° marzo del ’45. Nel 1946 gli fu diagnosticata la malattia di Addison, potenzialmente letale.

I primi passi in politica, il matrimonio e la paternità

Nel 1946 il deputato James M. Curley lasciò il suo seggio, corrispondente a un distretto elettorale a grande maggioranza democratica, per diventare sindaco di Boston. John Kennedy, con l’appoggio morale e materiale del padre, decise che valeva la pena dedicarsi alla carriera che era stata prevista per il fratello: la politica. Corse, allora, per quel seggio e batté il rivale repubblicano con un ampio margine. Fu rieletto due volte. E nel ’52 si candidò per il Senato, vincendo il favorito, il candidato repubblicano Henry Cabot Lodge, Jr., anche se con un margine di soli 70.000 voti.

Anticomunista ma non troppo

Erano gli anni della Guerra Fredda. E in quegli anni anche John Kennedy non vide molti dei guasti morali, degli errori politici, delle assurde sofferenze e delle profonde ingiustizie derivanti dall’anticomunismo dell’epoca[12]. Non attaccava gli avversari politici, insinuando che fossero filocomunisti, come facevano molti altri politici del tempo (inclusi e per primi, i repubblicani sulla cresta dell’onda Joseph McCarthy e Richard M. Nixon), ma in contrasto con il suo compagno di partito e presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, votò a favore della legge McCarran che prevedeva la schedatura dei comunisti e delle organizzazioni paracomuniste e l’internamento di costoro in caso di emergenza nazionale[13].

Dal 1951, però, il suo anticomunismo andò ridimensionandosi decisamente. Ad esempio, iniziò ad interpretare la lotta con l’Unione Sovietica su un registro diverso dalla mera sfida muscolare. Per contrastare i tentativi sovietici di assumere il controllo di quei paesi che tentavano di scrollarsi la dominazione coloniale o che vi erano appena riusciti (Marocco, Iran, India, Pakistan, Indocina, Malesia), occorreva sostenerli ed aiutarli a raggiungere una vera indipendenza [14].

Nel ’53 sposò Jacqueline Lee Bouvier. Da lei ebbe quattro figli. La prima, Arabella nacque morta nel ‘5. Poi vi furono Caroline nel ’57, John Fitzgerald Kennedy Jr. nel ’60 (morì nel 1999) e Patrick, morto nell’agosto del ’63, a soli due giorni dalla nascita per una malformazione polmonare.

La campagna per le presidenziali

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Il 2 gennaio 1960, Jack annunciò la sua decisione di concorrere alle elezioni presidenziali. Nelle primarie del Partito Democratico dovette vedersela con il senatore Hubert Humphrey del Minnesota, il senatore Lyndon B. Johnson del Texas e a con Adlai Stevenson II, che era stato il candidato democratico nel 1952 e nel 1956, battuto entrambe le volte da Eisenhower[15].

Jack arrivò come favorito alla convention democratica e il 13 luglio Kennedy fu eletto candidato alla presidenza. Kennedy chiese a Lyndon Johnson di essere il suo candidato alla vicepresidenza e nel discorso di accettazione della candidatura enunciò la dottrina della “Nuova Frontiera“, che significava conquistare nuovi traguardi per la Democrazia Americana, battendo il problema della disoccupazione, migliorando il sistema educativo e quello sanitario, tutelando gli anziani e gli emarginati e, in politica estera, intervenendo economicamente in favore dei Paesi “sottosviluppati”.

Ora il suo avversario era il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Richard Nixon, vicepresidente degli Stati Uniti nell’uscente amministrazione di Eisenhower.

 

La tiepidezza dei liberal e dei progressisti per il candidato John Kennedy

Jack sapeva che le posizioni che aveva assunto nel passato non gli avevano procurato il sostegno convinto dell’ala sinistra del partito e dell’elettorato democratico. E a settembre decise di affrontare di petto tale questione. Seguendo i suggerimenti di Arthur Schlesinger Jr., redattore dei suoi discorsi elettorali sulla Nuova Frontiera, con un incisivo discorso davanti ai liberal, che cominciarono ad apprezzarlo maggiormente.

Il vantaggio di Nixon nei sondaggi e “l’handicap” del cattolicesimo e della giovane età

A metà settembre, però, i Kennedy era preoccupati per i sondaggi che davano Nixon e il suo candidato alla vicepresidenza Henry Cabot Lodge in vantaggio di 6 punti[16]. Ciò che preoccupava maggiormente John e Robert Kennedy (costui aveva accettato l’offerta del fratello di coordinare la campagna elettorale) erano le obiezioni secondo le quali il cattolicesimo e la giovane età rendevano Jack inidoneo alla Casa Bianca. Secondo alcune stime il cattolicesimo di Jack poteva costagli un milione e mezzo di voti.

Per neutralizzare tale fattore decisivo, Jack decise ancora una volta di affrontare direttamente il problema. Contro il parere del fratello, dell’intero staff della campagna e di Lyndon Johnson il 12 settembre incontrò un gruppo di pastori protestanti – tutti o quasi repubblicani -, all’incirca 300 persone, a Houston. L’incontro fu seguito da milioni di telespettatori in tutto il paese[17].

Il duello televisivo con Nixon

Jack, però doveva ancora convincere gli elettori che non era troppo giovane e inesperto. E per riuscirci gli occorreva un confronto diretto con Nixon[18]. Dick Nixon accettò la sfida.

La sera del 26 settembre negli studi della CBS di Chicago, i due candidati si confrontarono di fronte a 70 milioni di telespettatori americani (i due terzi della popolazione adulta). E Nixon ne uscì male. Kennedy indirizzò i suoi discorsi di apertura e di chiusura direttamente al popolo americano, Nixon, invece, impiegò sia l’introduzione che la dichiarazione conclusiva per evidenziare tutti i punti in cui era in contrasto con il candidato democratico. Così, Jack diede l’impressione di essere un leader deciso a gestire i più gravi problemi del paese, mentre il candidato repubblicano apparve come uno che cerca solo di prevalere sull’avversario. Henry Cabot Lodge sentenziò:

«Quel figlio di puttana ha appena perso le elezioni».

Il confronto sulla politica estera

Kennedy sapeva, però, di aver vinto solo un round. Inoltre, chi aveva seguito il dibattito alla radio, anziché alla televisione, giudicava vincente Nixon. Kennedy doveva, quindi, dimostrare agli elettori che era arrivato il momento di riportare un democratico alla Casa Bianca. Lo fece con le cifre sull’economia e sulla disoccupazione[19]. Poiché secondo la società di rilevazione Gallup per quasi tutti gli americani il problema più importante per l’America, però, era costituito dai rapporti con la Russia, Kennedy attaccò Eisenhower e il suo vicepresidente Nixon per avere lasciato che l’Unione Sovietica raggiungesse un armamento nucleare superiore a quello americano[20]. Nixon, allora, cercò di spaventare gli elettori in due direzioni opposte. Sostanzialmente fece intendere agli elettori che Kennedy avrebbe rischiato la guerra nucleare con una inutile corsa agli armamenti oppure che, con un atteggiamento tipico dei democratici e, segnatamente, dei liberal e progressisti, pacifisti ad oltranza, non avrebbe realizzato investimenti adeguati per la difesa del paese.

Se questa fu una mossa falsa di Nixon, altrettanto sbagliata e ancor più deplorevole fu quella di Kennedy su Cuba. Sottolineando che la rivoluzione castrista era avvenuta durante la presidenza Eisenhower – Nixon e lasciando intendere che auspicava un intervento unilaterale contro Cuba, suscitò l’indignazione dei liberal e rese possibile a Nixon rinfacciargli di aver sfidato irresponsabilmente anche Mosca.

La questione razziale

Uno dei temi più delicati della campagna elettorale era quello relativo ai diritti civili delle minoranze. In particolare, degli afroamericani. Jack era convinto del diritto morale dei neri di rivendicare leggi che stabilissero pari opportunità, ma temeva l’irritazione dell’elettorato democratico bianco del Sud degli Stati Uniti, ostinatamente e rabbiosamente contrario alla politica progressista del partito democratico sul tema dei diritti civili[21]. Era preso tra due fuochi e doveva scegliere tra due alternative. Scelse quella in cui credeva di più. Iniziò, quindi, a intervenire a numerose assemblee di afro-americani, deplorando le scelte di Eisenhower di aver eliminato il diritto dei neri di accedere all’edilizia popolare sovvenzionata dallo Stato e proponendo il suo programma per l’affermazione dei diritti civili. Nel corso della campagna, ascoltando le persone che incontrava, si era sinceramente convinto dell’irrinunciabilità della battaglia antirazzista e antidiscriminatoria.

Il sostegno a Martin Luther King

Decisivo nel procurargli l’appoggio degli afroamericani fu la posizione che assunse nei confronti di Martin Luther King. Costui, che era stato arrestato per avere tentato di violare la segregazione razziale in un ristorante di Atlanta, era stato, poi, condannato a 4 mesi di lavori forzati per aver violato i termini della libertà vigilata, commettendo un’infrazione stradale (che, in realtà, King non aveva commesso).

L’iniziativa dei fratelli Kennedy che portò alla scarcerazione del reverendo King, contrapposta alla totale inerzia di Nixon, procurò a Jack un importante vantaggio tra gli elettori afroamericani. Ad ottobre, la vittoria pareva sicura.

La delusione del voto popolare

Il sondaggio finale della Gallup, tre giorni prima del voto, dava Kennedy al 50,5% e Nixon al 49,5. Il candidato repubblicano era rimontato. E la notte dello spoglio John Kennedy ebbe la conferma che il suo ascendente sull’elettorato era stato solo marginale. Alle 3,30 del mattino, quando andò a dormire, i risultati davano i due candidati ancora pari.

Fu solo a mezzogiorno che si ebbe la certezza assoluta della vittoria. Kennedy ottenne 303 voti elettorali contro i soli 219 di Nixon, ma il voto popolare registrò una vittoria con un margine molto basso: rispetto a Dick Nixon, Jack aveva avuto appena 118.574 voti in più su 68.837.000 voti complessivi. Era andato a votare il 64,5% degli aventi diritto al voto  e Kennedy aveva conseguito la presidenza con soltanto il 49,72 % del voto popolare[22].

Nelle elezioni di 56 anni dopo, quelle dell’8 novembre 2016, il candidato repubblicano, Donald Trump, prevalse sulla candidata democratica Hillary Clinton, divenendo 45° presidente degli USA grazie al voto di 304 grandi elettori contro i 227 della Clinton, per la quale, però, votarono 2 milioni e 900 mila persone in più di quelle che votarono per Trump.

Le prime conseguenze di una vittoria risicata

Kennedy si rendeva conto che la sua risicata vittoria non lo legittimava ad intraprendere iniziative radicalmente nuove, inducendolo, invece, a porsi, entro certo limiti, in continuità con la presidenza Eisenhower. Quel margine così contenuto lo persuase che doveva dimostrarsi capace di dialogare con i repubblicani, per far comprendere al popolo americano che, come presidente, avrebbe sempre posto l’interesse nazionale al di sopra della politica di partito.

Decise, così, di incontrare Nixon. E questa decisione ebbe l’effetto sperato, visto che il New York Times apprezzò la decisione di Kennedy di avvicinarsi ai repubblicani, non escludendo il loro contributo costruttivo. In realtà, l’incontro con i due ex sfidanti, stando a Jack, non fi né interessante né divertente.

«È stato un bene per tutti che non ce l’abbia fatta», confidò al suo consigliere e amico Kenneth O’Donnell, durante il viaggio di ritorno.

Soprattutto, la sua decisione di aprire ai repubblicani e di porsi in continuità con la precedente amministrazione lo indussero, già due giorni dopo le elezioni, ad annunciare che avrebbe confermato Allen Dulles e J. Edgar Hoover, rispettivamente nei loro incarichi di direttore della CIA e della FBI.

È anche possibile che, rispetto a Hoover, la sua decisione fosse condizionata dal timore di rivelazioni sui suoi innumerevoli rapporti extra-coniugali. In seguito, Lyndon Johnson, affermò che era meglio tenere Hoover dentro la tenda a pisciare fuori, piuttosto che lasciarlo fuori a pisciare dentro.

 

Alberto Quattrocolo

Fonti

Robert Dallek, John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta, Arnoldo Mondadori S.p.A., Milano, 2004

John k. Galbraith, Una vita nel nostro tempo, Mondadori, Milano, 1982

Rose Kennedy, Tempo di ricordare, Mondadori, Milano, 1974

www.cultura.biografieonline.it

www.wikipedia.org

 

[1] Joseph P. Kennedy e la moglie erano entrambi di origini irlandesi e facevano parte dell’élite irlandese di Boston. Rose, era figlia dell’ex sindaco di Boston (del Partito Democratico), John Francis Fitzgerald. Mentre il padre di Joseph, il nonno paterno del futuro presidente, era stato deputato, prima, e senatore democratico, poi, del Massachusetts. Joseph. P. Kennedy fondò, nel 1928, la casa cinematografica RKO Radio Pictures, con David Sarnoff, boss della RCA, Radio Corporation of America. E fu sostenitore di Franklin Delano Roosevelt durante la prima e la seconda campagna elettorale (1932 e 1936). Il presidente lo ricompensò per il suo appoggio nominandolo presidente della commissione Borsa e Finanze, deputata a riformare quelle regole di Wall Street che avevano consentito il “martedì nero”, vale a dire il crollo della Borsa del 1929.

[2] «Molto fredda, molto distante da tutto. Dubito che in vita sua abbia mai scompigliato affettuosamente i capelli del ragazzo. Per lei non esisteva il dovere di far capire a tuo figlio che gli sei vicina, che ci sei. Lei non c’era»: con queste parole la descrisse Charles Spalding un amico che frequentava la famiglia Kennedy

[3] A cinque anni non era in grado mangiare o vestirsi da sola, aveva limitate capacità verbali e fisiche. Come raccontò la madre in un’intervista, Rosemary era lenta nei movimenti, alcune azioni non era in grado di farle, la lettura e la scrittura risultavano molto difficili per lei: scriveva da destra verso sinistra. Rosemary Kennedy aveva solo 23 anni quando fu sottoposta a lobotomia che la ridusse quasi in uno stato vegetativo: incontinente, trascorreva ore a fissare le pareti, non pronunciava che parole senza senso, aveva perso l’uso di un braccio e camminava a fatica, tanto da essere confinata sulla sedia a rotelle. Morì ad ottantasei anni nel 2005.

[4] Rose considerava la disabilità di Rosemary come una sorta di dono del Cielo, un modo con il quale Dio ammoniva quella famiglia ricca e privilegiata affinché ricordasse che nella vita non si deve solo prendere ma anche dare

[5] Anzi, tre mesi prima di festeggiare il suo terzo compleanno contrasse una forma di scarlattina così virulenta da dover essere ricoverato per due mesi in ospedale e trascorrere altre due settimane in sanatorio. Poi arrivarono la varicella, varie infezioni ad un orecchio e altre infermità che lo costrinsero a passare moltissimo tempo a letto.

[6] A quattordici anni e mezzo, pesava poco più di 50 kg e a 16 anni era ancora fermo a 53, inoltre aveva dolori alle ginocchia, infezioni all’orecchio, dolori addominali, anomalie nelle urine, gonfiore delle ghiandole, problemi agli occhi. A seguito di un ricovero d’urgenza, a 17 anni, i medici gli comunicarono un’ipotesi diagnostica: una forma letale di leucemia. Jack scrisse al suo compagno di corso Lemoyne Nillings «mi danno già per morto». Alto e incredibilmente magro, veniva chiamato dai compagni Faccia di topo. Sei mesi dopo, ricoverato in un’altra clinica, fu ripetutamente sottoposto ad esami tanto dolorosi, quanto invasivi e imbarazzanti, da cui emerse che soffriva di colite spastica, inizialmente diagnosticata come ulcera peptica. Perdeva peso, tre chili e mezzo. Soffriva anche di problemi digestivi. Ma non si lamentava che con Lemoyne Billings, cui scriveva lettere ironiche, per celare il disagio e l’angoscia, confidandogli che non ne poteva più dei continui clisteri cui era sottoposto. L’anno seguente gli fu diagnosticata un’agranulocitosi, una diminuzione dei leucociti, probabilmente dovuta alla terapia farmacologia che seguiva, che lo rendeva più esposto alle infezioni. Nel ’36 fu nuovamente e lungamente ricoverato. E risultò che aveva i globuli bianchi molto al di sotto dei valori normali. Se il 1937 andò tutto sommato bene, salvo alcuni ricoveri, tra il ’38 e il ’40 continuò ad essere tormentato da problemi allo stomaco e al colon.

[7] Non poche conseguenze ebbero anche le terapie farmacologiche che doveva seguire, a partire dall’uso di steroidi, che già negli anni Quaranta si impiantava da solo nella gamba, incidendo la pelle con un coltellino, per combattere gli effetti debilitanti del morbo di Addison.

[8] Ma il suo approccio alla situazione europea non consisteva soltanto nel leggere libri, giornali e altre pubblicazioni locali. Faceva domande alla gente comune, ai contadini, ai camerieri, ecc., chiedendo loro cosa ne pensassero del regime hitleriano, delle mire della Germania, della linea Maginot, sulla politica del New Deal, su Mussolini.

[9] Roosevelt credeva che quell’irlandese-americano che si era fatto da sé non si sarebbe lasciato irretire dal governo conservatore inglese e dalla sua politica di appeasement (più che come pacificazione, il termine appeasement andrebbe inteso nel senso di compromesso al ribasso, di compromesso a tutti i costi) verso la Germania hitleriana. L’approvazione che Joe Kennedy diede all’accordo di Monaco tra Hitler, il primo ministro britannico Neville Chamberlain, il presidente francese Daladier e Benito Mussolini disconfermò le previsioni di Roosevelt sul suo nuovo ambasciatore a Londra. E, del resto, non molto popolari furono le parole di apprezzamento spese dall’ambasciatore sull’accordo raggiunto dalle 4 potenze europee ai danni della Cecoslovacchia. «Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra», fu il commento di Winston Churhill, che, quasi da solo, cercava di mettere in guardia il mondo dalle mire ferocemente espansionistiche del totalitarismo nazista.

[10] In un successivo giro, nel ’39, visitò anche la Francia, la Germania, la Polonia, l’URSS, la Grecia, il Libano, la Bulgaria, la Turchia, la Siria e la Palestina. Il suo tour finì con l’invasione tedesca della Polonia e l’inizio del secondo conflitto mondiale

[11] Kennedy nuotò per tre miglia nell’oceano trascinando un compagno fino a Plum Pudding Island dove si rifugiò con gli altri naufraghi. La notte successiva da solo, incurante degli squali, nuotò per cinque chilometri, per raggiungere una posizione da dove poter avvistare eventuali navi statunitensi. Non avendone vista alcuna, decise che l’unica speranza di sopravvivere per tutti consisteva nel raggiungere l’isola di Olasana, dove si sapeva che vi era cocco in abbondanza. Infine, infine, riuscì a provvedere al salvataggio di tutto l’equipaggio. Infatti il mattino seguente la PT-157, come da accordi radiofonici, si presentò sul luogo dell’appuntamento concordato con Kennedy. Guidata da lui personalmente, la motosilurante raggiunse la scogliera e poi Olasana

[12] La paranoia anticomunista e l’isteria, politicamente conveniente, della “caccia alle streghe” non lo avevano contagiato come accadde a milioni di altri americani, né si poteva definirlo schierato con Joseph McCarthy – che conduceva, a capo della Commissione senatoriale di inchiesta sulle attività antiamericane, una spettacolare quanto vergognosa caccia al comunista all’interno del governo, delle forze armate, dell’industria dello spettacolo, ecc., definendo come sovversivi e filosivetici anche coloro che avevano solo una vaga sensibilità progressista  -, tuttavia riteneva che il rischio di una vittoria comunista richiedesse il sacrificio di alcune libertà, inclusa quella consistente in una limitazione per i cittadini del diritto di esprimere il dissenso.

[13] Nel 1954, quando il Senato era ancora indeciso se censurare McCarthy, Kennedy aveva preparato un discorso in cui diceva che avrebbe votato a favore della censura, ma non pronunciò, perché, il 2 dicembre 1954, quando il Senato decise per la censura, Kennedy era ricoverato in ospedale.

[14] In questo contesto si colloca il suo discorso pronunciato in Senato nel 1957, con il quale criticò l’appoggio che il governo USA (presieduto da Dwight Eisenhower) offriva al dominio coloniale francese in Algeria. Sulla base di questa sua linea di rinnovamento nei confronti dei cosiddetti “Paesi Nuovi”, venne eletto presidente della Sottocommissione per l’Africa dalla commissione estera del Senato.

[15] Stevenson, pur non correndo ufficialmente, era uno dei favoriti e raccoglieva la gran parte dei consensi liberal del partito.

[16] Le tattiche elettorali di Nixon e i suoi duri attacchi democratici degli anni ’50 ricordavano da vicino l’isteria anticomunista di McCarthy, eppure il candidato repubblicano era già in vantaggio, pur senza avere ancora sferrato alcuno dei suoi tipici colpi bassi.

[17] Così commentò l’incontro uno degli uomini del suo staff: «Mio Dio, guardatelo… e ascoltatelo! Se li sta mangiando in un boccone. Quel ragazzo sarà un grande presidente!»

[18] Eisenhower sconsigliò il suo vicepresidente dall’accettare la sfida di un dibattito televisivo con Kennedy. Non era mai stata fatta prima una cosa del genere. E, poi, sosteneva Eisenhower, da questo tipo di confronto Kennedy aveva tutto da vincere e Nixon tutto da perdere.

[19] Tra il 1953 (anno di inizio del primo mandato di Eisenhower alla Casa Bianca e il 1959) la crescita economica degli USA era stata in media del 2,4% annuo, mentre nei vent’anni precedenti di amministrazione democratica aveva avuto esiti ben diversi e dal 1939 al 1952 era stata quasi del 6%. Ciò spiegava Kennedy costituiva anche un problema nella lotta al comunismo, visto che l’Unione Sovietica, secondo le analisi della CIA cresceva sopra il 7%.

[20] In realtà, Eisenhower aveva informazioni che smentivano tale svantaggio, ma non era disposto a rivelare le sue fonti, mentre Jack aveva dei dati terrificanti.

[21] Egli sperava che la nomination vicepresidenziale di Lyndon Johnson rassicurasse i democratici meridionali, ma sapeva che ciò non era sufficiente.

[22] Tutti nel suo staff avevano previsto un margine di vantaggio tra il 53 e il 57%. Quel vantaggio di circa 120 mila voti appena fu uno shock. Probabilmente avevano sottovalutato la persistenza diffidenza dell’elettorato verso un candidato cattolico.

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