John Wayne, il divo più amato e odiato di tutti i tempi

John Wayne morì l’11 giugno del 1979. Aveva 72 anni, da poco compiuti. In cinquant’anni di carriera, aveva interpretato 170 film, di cui 153  da protagonista, diventando stata una delle più remunerative star di Hollywood. John Wayne, infatti, era certamente diventato uno dei maggiori divi cinematografici di tutti i tempi, tanto da essere collocato al 13° posto nella lista delle più grandi star della storia del cinema dall’American Film Institute. Ma per molti milioni di persone negli Stati Uniti, come nel resto del mondo, John Wayne era anche qualcos’altro: una leggenda vivente e un simbolo. Un simbolo di forza, determinazione, coraggio, virilità, senso del dovere e del sacrificio, onore e integrità. E un simbolo di patriottismo. O, per meglio, dire, di “americanismo”. Un  simbolo, quindi, da amare o da odiare. Oppure da amare e odiare contemporaneamente. Come affermò Jean-Luc Godard, cogliendo le ragioni del fascino di Wayne:

«Come posso odiare John Wayne, perchè simpatizza per Goldwater, e poi amarlo teneramente, quando prende improvvisamente tra le braccia Nathalie Wood, negli ultimi minuti di Sentieri Selvaggi?».

«Ringrazio Dio ogni giorno di essere americano» (John Wayne)

Era l’America di provincia, piccolo-borghese, quella di cui John Wayne si ergeva a difensore. Quella con la bandiera a stelle strisce sventolante nel giardino e con qualche famigliare caduto o ferito in uno dei tanti conflitti combattuti dagli Stati Uniti, dal 1776 in poi. In effetti, era presso questo strato di popolazione, profondamente persuasa della santità del sistema di vita americano che John Wayne riscuoteva sempre un’approvazione incondizionata. Per questa parte di americani, John Wayne, oggi come quarant’anni fa, continua ad essere un mito inscalfibile. E anche se i suoi film avevano successo presso qualsiasi tipo di pubblico, in Europa, come in America o in Asia, per John Wayne era importante anche nelle sue pellicole meno politicamente schierate far trasparire la sua fierezza di essere americano.

«Ringrazio Dio ogni giorno di essere americano»

Molto probabilmente era assai sincero, e non meno convinto e convincente, quando si esprimeva in questi termini. Lo faceva, talvolta, credendo di interpretare il meglio della mentalità americana. Il modo di pensare degli abitanti West, anzi dei pionieri, per come la leggenda e il cinema li avevano rappresentati. Per come lo stesso John Wayne aveva contribuito a tramandarli. Ed egli, nato e cresciuto nell’Ovest, in quella cultura, reale o fittizia che fosse, si identificava totalmente. Alexander Walker in “Stardom” sostenne che John Wayne fu «il più perfetto esempio di divo che fosse riuscito a trasferire le sue idee politiche nei film e i suoi film nella propria immagine pubblica». E le sue idee erano quelle di un repubblicano incrollabilmente di destra. Un conservatore che si riteneva fedelissimo interprete dell’americanismo. In nome del quale aveva supportato energicamente la causa degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, non limitandosi ad interpretare un certo numero di film bellici, di schietta propaganda, ma anche western e film di ambientazione contemporanea, contenenti impliciti o espliciti rinvii alla lotta contro i regimi nazi-fascisti.

John Wayne tra idealismo repubblicano e caccia alle streghe

Già, dopo quasi un decennio di gavetta nei film, western e di avventura, di serie B e C,  prodotti a ritmi vertiginosi da piccole case cinematografiche, nel 1939, aveva interpretato Ombre Rosse (di John Ford). Questo western-capolavoro, grazie al quale il maestro della Settima Arte lo aveva trasformato in divo, era anche una trasparente metafora, idealizzante, dei valori democratici sottesi al New Deal, del presidente Franklin Delano Roosevelt e un preciso atto d’accusa contro l’egoismo isolazionista dominante nel Congresso degli Stati Uniti e nell’opinione pubblica. Inoltre, ben prima dell’entrata in guerra degli USA, John Wayne aveva interpretato un certo numero di pellicole apertamente schierate contro l’ideologia proposta da Hitler e Mussolini e scritti o diretti da autori di sinistra. Non si contano, poi, i film interpretati da John Wayne durante la guerra, diretti, prodotti o basati su sceneggiature di progressisti, liberal o di veri e propri iscritti al Partito Comunista Americano. Si trattava di opere che esprimevano una visione idealizzata degli USA, proponendo un’ideologia progressista e liberale, antifascista e antitotalitaria, di sincera ispirazione democratica. Tra questi autori-produttori, figuravano Stanley Roberts, Guy Endore, Edward Dmytryk, Jules Dassin, Samuel Ornitz, Margherite Roberts: tutti destinati ad essere perseguitati per le loro opinioni politiche di sinistra nella caccia alle streghe de dopoguerra. Intanto, nel ’44, John Wayne era stato tra i fondatori della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals MPAPAI (Alleanza cinematografica per la difesa degli ideali americani). Composta da importanti personalità dell’industria cinematografica hollywoodiana (tra i quali Walt Disney, Leo McCarey e Sam Wood), cui aderirono, in seguito, sia celebri attori  caratteristi come il suo amico fraterno Ward Bond o come  Charles Coburn, sia superstar come Clark Gable, Gary Cooper, Robert Taylor, era un’organizzazione di orientamento politico conservatore, con lo scopo dichiarato di difendere l’industria cinematografica, e attraverso di essa, il Paese, contro l’infiltrazione comunista e fascista. John Wayne, che dopo Sam Wood e Robert Taylor, nel ’48 ne era divenuto attivissimo presidente (lo fu per tre mandati consecutivi), con l’affermarsi della Guerra Fredda, aveva tradotto il suo impegno politico in un anticomunismo attivo e inesorabile.

«La ripugnanza che sento per i comunisti…» (John Wayne in Marijuana)

Così nel ’52, John Wayne, supportò in tutti i modi per lui possibili la caccia alle streghe anticomunista: con la sua nuova casa di produzione, produsse ed interpretò Marijuana (1952, di Edward Ludwig), un film di aperta propaganda anticomunista, in cui impersonava un membro della Commissione parlamentare per le attività anti-americane (House Un American Activities CommitteeHUAC), impegnato nella caccia ai comunisti; si schierò incondizionatamente dalla parte di Joseph McCarthy (l’abbiamo ricordato su questa rubrica, nel post A cavallo della paranoia), nelle primarie del Partito Repubblicano, per poi sostenere il candidato, più moderato, scelto dalla convention repubblicana per le elezioni presidenziali, il generale Dwight Eisenhower. Inoltre, come presidente dell’MPAPAI, che collaborava con l’HUAC, convocò lo sceneggiatore e produttore Carl Foreman. Costui, indagato per essere stato in passato iscritto al Partito Comunista Americano (dal quale era uscito, nauseato, a seguito del patto di non aggressione nazi-sovietico del ’39), aveva appena sceneggiato Mezzogiorno di fuoco (1952, di Fred Zinneman), capolavoro western e allegoria riuscitissima (tanto da fruttare all’anziano Gary Cooper il suo secondo Oscar) dell’isolamento al quale erano condannati i presunti comunisti, dopo essere stati ligi e in prima linea contro le minacce alla comunità, alla libertà e ai principi costituzionali. Wayne, che detestava Mezzogiorno di fuoco, avendone riconosciuto i pregi artistici e colto il significato politico, disse a Foreman:

«Siete un professionista, come potete far parte di una banda di comunisti? Se continuate su questa strada, la vostra carriera è finita. Nessuno vi farà più lavorare. Vi sarà ritirato il passaporto e anche all’estero faremo sì che non troviate più alcun lavoro».

La replica di Foreman fu:

«Sapete, i vostri metodi mi ricordano molto quelli di Hitler e Stalin».

«Bisogna combattere il fuoco con il fuoco» (John Wayne)

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Confuso e sbalordito, John Wayne replicò a Carl Foreman, giustificandosi maldestramente:

«Bisogna combattere il fuoco con il fuoco».

Probabilmente, la sua risposta non era soltanto un’auto-giustificazione improvvisata e, intellettualmente e moralmente, debolissima. Forse la pensava davvero così, pur riconoscendo la potente verità che gli aveva spianato davanti agli occhi Foreman, l’intellettuale. In effetti, a John Wayne non piacevano un granché gli intellettuali. Nel 1960 fece pubblicare a proprie spese, su tre pagine consecutive del numero di Life del 4 luglio un articolo dal titolo Non c’erano scrittori fantasma ad Alamo. In effetti, pur appoggiando il candidato repubblicano alle presidenziali Richard M. Nixon, fin dai tempi della sua raccapricciante partecipazione alla caccia alle streghe, John Wayne biasimava il fatto che costui, alla pari del suo avversario John F. Kennedy, non si scrivesse da solo i propri discorsi, ma si avvalesse appunto di ghost-writers. La sua America, dunque, non era certo quella dell’élite intellettuale. Non era l’America di chi ne metteva in dubbio la storia, le tradizioni o la politica estera. Quell’anno, infatti, John Wayne spendeva quasi tutto il suo capitale per promuovere La battaglia di Alamo (1960, di John Wayne). Un kolossal dai costi impressionanti, che aveva diretto e interpretato, realizzando un sogno artistico e politico inseguito da ben quindici anni. La pellicola, un impasto di idealismo libertario, antirazzismo e nazionalismo spinto, lo mandò quasi in rovina, ma egli non si diede per vinto. E nove anni dopo, tornò alla carica con un’altro film da lui prodotto, diretto e interpretato, I berretti verdi (1969, di John Wayne). Un’opera di sfacciata propaganda a favore della guerra in Vietnam, che pesantemente osteggiata non soltanto dal movimento pacifista, ma anche dalla critica americana e internazionale, pur ottenendo un certo successo di pubblico.

«Se una cosa non è bianca o nera vada al diavolo» (John Wayne)

John Wayne non amava le sfumature. Gli piacevano le cose nette: «Le sfumature possono andare a farsi fottere», diceva. A ben vedere, però, pochi divi riuscirono come John Wayne a mettere in luce, anche involontariamente, le nevrosi, le contraddizioni, le storture morali, della mentalità autocelebrativa dei WASP (bianchi, anglosassoni e protestanti). Padre di quattro figli, non si arruolò per combattere al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale, diversamente da altri attori, meno manifestamente patriottici di lui. Sostenitore della famiglia tradizionale, pur essendo sposato, ebbe relazioni sentimentali con diverse attrici: Marlene Dietrich (l’abbiamo ricordata nel post Con te, Marlene Dietrich), Barbara Stanwyck, Susan Hayward, Joan Crawford, Claire Trevor, Jean Arthur, Gail Russell e Paulette Goddard, compagna di un “sovversivo” come Charles Chaplin (abbiamo ricordato qui il capolavoro “sovversivo” Tempi Moderni, di Chaplin, che la Goddard interpretò nel 1936). Sposò tre donne ispano-americane, che in tutto gli diedero sette figli e, sul letto di morte, si convertì al cattolicesimo. E la morte fu dovuta ad un cancro causato dalle radiazioni assorbite mentre girava nel ’56 un film nel deserto dell’Utah, dove si svolgevano i test delle armi nucleari. Anche sul piano personale entrò spesso in contraddizione con il suo reazionario e monolitico credo politico. Ad esempio, restò amico dell’attore Larry Parks, comunista finito nella lista nera, mantenne intatta la sua stima nei confronti del citato Carl Foreman, tanto da andare a congratularsi con lui per il successo del suo kolossal antimilitarista, I cannoni di Navarone (1961, di Jack Lee Thompson), interpretato da Gregory Peck (che abbiamo ricordato nel post Il buio oltre la siepe e l’umile forza dell’empatia). Volle accanto a sé Laurene Bacall in Oceano Rosso (1955, di William A. Wellman), pur essendo costei, come il marito Humphrey Bogart, di idee politiche diametralmente opposte alle sue e, per giunta, una fiera avversaria del maccartismo. E la rivolle al proprio fianco nell’ultimo film che interpretò Il pistolero (1976, di Don Siegel). Nella sua megaproduzione e prima prova registica, La battaglia di Alamo, volle accanto a sé due attori, bravissimi, dichiaratamente di sinistra, Richard Widmark (di cui abbiamo parlato nel post Richard Widmark, il cattivo “buonista” di Hollywood) e Laurence Harvey. Uno dei suoi ultimi film, da lui prodotto, lo vide al fianco di un’altra indistruttibile progressista e anti-maccartista, Katharine Hepburn (l’abbiamo ricordata nel post L’indipendenza di Kate Hepburn). Lavorò, inoltre, per tre volte con un sostenitore fedelissimo del Partito Democratico e uno dei più risoluti e dichiarati nemici della caccia alle streghe, il divo Kirk Douglas, arruolandolo anche in film da lui prodotti. Peraltro, con Kirk Douglas interpretò una grossa produzione di Otto Preminger (Prima vittoria, 1965, di Otto Preminger), un altro progressista e anti-maccartista impegnato. Inoltre, non lesinò manifestazioni di gratitudine e apprezzamento alla sopra menzionata Marguerite Roberts, autrice della sceneggiatura che gli fruttò l’Oscar, l’unico da lui vinto, per Il Grinta (1969, di Henry Hathaway), come non ebbe esitazioni nell’ammirare e stimare Paul Newman, suo risoluto avversario in moltissime battaglie politiche. Infine, la sua fervente passione politica non era tale da portarlo a trasformarla in lavoro, a differenza di quanto aveva fatto il suo amico Ronald Reagan. Tanto che nel ’66 rifiutò la candidatura a Governatore dell’Alabama, propostagli dai repubblicani.

«Non si è mai visto un cowboy sul lettino dello psicoanalista. I letti servono a una cosa sola». (John Wayne)

Se non era politicamente contorto, John Wayne aveva, comunque, una personalità complessa. Una complessità che gli permetteva di toccare vette di autenticità in diverse prestazioni attoriali. I suoi film migliori, quelli nei quali dimostrò non solo di avere una forte presenza scenica, ma anche di essere un vero, grande, attore cinematografico, lo vedevano interpretare personaggi ambigui, tormentati da impulsi autodistruttivi e lacerati da un’inquietudine dolorosa e senza requie. L’americano tutto d’un pezzo, il leader coraggioso e virile, svelava, in queste pellicole, la propria natura autoritaria. Tiranni dai risvolti psicopatici erano, infatti, i protagonisti di alcune delle sue pellicole artisticamente più riuscite e alle quali era maggiormente affezionato: La strega rossa (1948, di Edward Ludwig), Fiume Rosso (1948, di Howard Hawks), Iwo Jima, deserto di fuoco (1949, di Allan Dwan) e l’inarrivabile capolavoro di John Ford, Sentieri selvaggi (1956). Ethan Edwards, il vendicativo protagonista di Sentieri selvaggi, che spara negli occhi ad un indiano morto, per non farlo andare in paradiso, che uccide con furia maniacale i bisonti, per far morire di fame donne e bambini comanches, era reso da Wayne come, anzi meglio di quanto avrebbe potuto fare un esperto interprete di noir o il più fedele attore del Metodo. John Wayne mostrava di Ethan, senza edulcorarli né giustificarli, sia il razzismo omicida che l’ottusità psicotica, lasciando affiorare il coacervo di contraddizioni che affliggeva quell’immortale personaggio: la solitudine e l’amarezza di fondo, l’incapacità di integrarsi e di dare e ricevere amore, la fragilità sottesa all’arroganza, la crudeltà e il cinismo. Insomma, John Wayne non era un tipo cerebrale, ma nemmeno quell’ottuso irriducibile che poteva apparire. Forte bevitore e fumatore incallito (5 pacchetti al giorno), era capace di sorprendenti momenti di consapevolezza della complessità della vita e della tortuosità della psiche umana, sia nelle sue performance cinematografiche che nella vita reale.

«Io non recito, reagisco». (John Wayne)

John Wayne non aveva la pretesa di essere un artista. Diceva che lui non recitava, si limitava a reagire. Il che era ben visibile quando interagiva davanti alla macchina da presa con caratteristi particolarmente espressivi come Thomas Mitchell, John CarradineBarry FitgeraldWalter Brennan o i suoi amici Ward BondVictor McLaglen, Pedro Armendariz, Harry Carey Jr., Ben Johnson Forrest Tucker. Ma questo suo saper ascoltare e reagire emergeva anche con co-protagonisti del calibro di Walter Pidgeon, Ray MillandAnthony QuinnMontgomery CliftHenry Fonda, Jeffrey HunterDean Martin, William Holden, Stewart Granger, Lee MarvinJames Stewart, Rock Hudson, Robert MitchumJames Caan o Rod Taylor, per non parlare dei suoi duetti nei diversi film interpretati con la versatile Maureen O’Hara. Non rubava mai la scena agli altri, anzi, sapeva stare da parte e, permettendo loro di emergere, sapeva reagire, appunto, al momento giusto e con la giusta misura. In effetti, secondo i suoi detrattori, John Wayne non sapeva far altro che interpretare se stesso. Tuttavia, andrebbero ricordati film come Il grande tormento (1941, di Henry Hathaway), in cui era un giovane montanaro tormentato da rovelli edipici, I cavalieri del Nord Ovest (1949, di John Ford), dove, quarantaduenne, interpretava un burbero, auto-ironico e sobriamente sentimentale ma fiero, capitano sessantacinquenne. Oppure, il suo film più romantico e poetico, Un uomo tranquillo (1952, ancora di John Ford), in cui impersonava un ex-boxeur, trasferitosi nella sua terra d’origine, l’Irlanda, alla ricerca delle proprie radici e della quiete necessaria a superare insopprimibili sensi di colpa.

«Credetemi se vi dico che sono enormemente felice di ritrovarmi con voi questa sera» (John Wayne)

Nato il 26 maggio del 1907, come Marion Michael (all’anagrafe, Robert) Morrison, nell’Iowa, cresciuto alle soglie del deserto californiano, figlio di un farmacista fallito, che ebbe un rapporto conflittuale con la moglie, grazie al fisico imponente e ad una borsa di studi per il football, aveva frequentato l’università. Notato dal celeberrimo Tom Mix era entrato nel mondo del cinema come attrezzista e trovarobe. Dopo alcune particine in alcuni film di John Ford, aveva esordito in un leggendario flop commerciale, Il grande sentiero (1930), un western colossale di Raoul Walsh. Ribattezzato per quel film John Wayne, era finito a fare 9 anni di lunghissimo tirocinio in filmetti a basso costo, finché John Ford non lo aveva riscoperto, lanciandolo come protagonista di Ombre rosse. Raggiunto il successo, pur subendo delle cadute, per circa quarant’anni, restò all’apice. I suoi film nel complesso gli fecero guadagnare 400 milioni di dollari, un record, fino alla sua morte, imbattuto nella storia del cinema mondiale (pare che tutti i film da lui interpretati abbiano incassato, nel mondo, oltre un miliardo di dollari). Per più di vent’anni figurò nelle classifiche degli indici di gradimento e nel 1969, quando era sulla breccia dell’onda da ormai trent’anni e ne aveva sessantadue di età, venne insignito del titolo di “Superstar del decennio”. Né la sua popolarità calò negli anni Settanta, come non venne meno dopo la sua morte. In effetti, al di là degli aspetti ideologici, impliciti o espliciti di alcune o molte sue pellicole, la gran parte dei film che interpretò John Wayne avevano successo perché erano fatti bene, in taluni casi assurgevano al rango di autentici capolavori della Settima Arte, e offrivano al pubblico esattamente ciò che era disposto a pagare per vedere. A dispetto del suo successo planetario e dei suoi tanti ruoli di leader dispotico, John Wayne seppe conservare una certa umiltà di fondo, tanto da sapere riconoscere i propri errori e scusarsi in pubblico, e non dimenticò mai il valore dell’amicizia. Creata nel dopoguerra la propria società di produzione, se ne servì anche per dare lavoro a persone in difficoltà, fossero amici di lunga data, ex nemici come il regista John Sturges, o giovani autori. Per tutti coloro che gli volevano bene, egli era The Duke, il Duca, un soprannome che gli venne affibbiato da giovane, prendendolo a prestito dal nomignolo che aveva dato al suo cane quand’era bambino.

Nell’aprile del ’79, a tre anni di distanza dall’ultimo film che aveva interpretato (Il pistolero, 1976, di Don Siegel), John Wayne era apparso davanti alle telecamere durante la cerimonia per la consegna degli Oscar.

«Credetemi se vi dico che sono enormemente felice di ritrovarmi con voi questa sera. L’Oscar e io abbiamo qualcosa in comune. L’Oscar apparve sulla scena di Hollywood nel 1928. Proprio come me. Il tempo ci ha reso un po’ malconci, ma siamo ancora qui e contiamo di rimanere in circolazione ancora per un bel po’», disse con la voce un po’ incrinata dall’emozione.

La stessa commozione aveva afferrato il pubblico a casa e i suoi colleghi nel trovarsi davanti un John Wayne incredibilmente dimagrito e provato dal grande “C”, come egli definiva il cancro, che era tornato ad attaccarlo l’anno precedente e contro il quale aveva lottato una prima volta, nel 1964, vincendolo, grazie all’asportazione di un polmone.

Alberto Quattrocolo

Fonti

AA.VV., Il Cinema. Grande Storia Illustrata, Volume Quinto, Istituto Geografico De Agostini Novara, 1982

Alan G. Barbour, John Wayne, Milano Libri Edizioni, 1979

Anton Giulio Mancino, John Wayne, Gremese Editore, 1998

 

 

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