Il referendum più importante nella storia d’Italia

Il 16 marzo del 1946 veniva indetto il referendum più importante nella storia dell’Italia. Il decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo del ’46, n. 98 stabiliva che gli elettori, mediante referendum, avrebbero scelto se la forma dello Stato sarebbe stata quella della repubblica o se sarebbe rimasta una monarchia. Ma quali elettori avrebbero avuto il diritto di votare? Per la prima volta in Italia avrebbero votato anche le donne in una consultazione nazionale. Come si arrivò a queste svolte decisive per il nostro Paese?

Il ritorno del sistema liberale dopo vent’anni di fascismo.

Dopo la sfiducia a Mussolini, votata dal Gran Consiglio del Fascismo, il 25 luglio 1943, il Regno d’Italia intraprese, in mezzo ai disastri della Seconda Guerra Mondiale, un tortuoso e tormentato percorsi di ripristino delle istituzioni liberali del periodo pre-fascista. Già nell’agosto del 1943 il Regio decreto-legge n. 705 sciolse la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e stabilì che entro quattro mesi dalla fine del conflitto bellico si sarebbero svolte le elezioni per la nuova Camera dei Deputati. Gli eventi bellici e politici, però, ebbero sviluppi tali da non consentire la realizzazione di queste disposizioni e da rendere necessaria una revisione complessiva del sistema istituzionale.

Lo stallo politico successivo all’8 settembre

Dopo l’armistizio dell’8 settembre l’Italia era diventata un campo di battaglia. Mentre le truppe tedesche occupavano il centro-nord, il re e il governo lasciavano Roma per trasferirsi al sud, controllato dalle forze alleate, i partiti antifascisti, costituitisi in Comitato di Liberazione Nazionale e intenzionati ad essere la guida dell’Italia democratica, rifiutavano di collaborare con il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo del Governo, e con il sovrano, Vittorio Emanuele III, ritenendoli entrambi troppo compromessi col regime fascista. A sbloccare lo stallo, provvide il lavoro delle diplomazie e l’intervento di Palmiro Togliatti, segretario del PCI. L’iniziativa di Togliatti, su impulso dell’Unione Sovietica, mirava, attraverso un compromesso tra i partiti antifascisti, da una parte, e Vittorio Emanuele III e Badoglio, dall’altra, alla formazione di un governo di unità nazionale. Un governo, cioè, costituito da rappresentanti di tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale.

La svolta di Salerno

In base a tale compromesso, la soluzione della questione istituzionale venne posposta. Il liberale Enrico De Nicola, presidente della Camera dei Deputati dal 1920 al 1924, propose, infatti, non soltanto il trasferimento di tutte le funzioni di Capo dello Stato da Vittorio Emanuele III ad Umberto di Savoia, il principe ereditario, quale Luogotenente del Regno, ma anche l’indizione di una consultazione elettorale per la formazione di un’Assemblea Costituente e per la scelta della forma dello Stato. Consultazione da svolgersi solo al termine della guerra. Con il patto di Salerno sorgeva, quindi, il primo governo politico post-fascista (il governo Badoglio II). Tale governo, cui partecipavano i sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), PCI compreso, si formò a Salerno, il 22 aprile 1944 [1].

La “Costituzione provvisoria

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Il “patto di Salerno”, che segnò, dunque, un cambio di rotta decisivo rispetto sia alla liberazione dal nazifascismo sia alla nascita della democrazia dalle ceneri della dittatura, fu l’esito di una complessa trattativa. Se, da un lato, fu accettato che venisse eliminata dalla scena la scomoda e ormai disprezzata figura del re, Vittorio Emanuele III, dall’altra si accettò che venisse salvato momentaneamente l’istituto monarchico. In tal modo si ponevano le basi politiche di quella che fu definita la “Costituzione provvisoria“. Un periodo di passaggio verso la fase costituente vera e propria. Le basi giuridiche di tale ordinamento provvisorio furono introdotte con il decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151. Questo documento fondamentale della “Costituzione provvisoria” stabiliva che, alla fine della guerra, mediante suffragio universale diretto e segreto, si sarebbe eletta un’Assemblea Costituente, per scegliere la nuova forma di Stato e per preparare la nuova Carta Costituzionale. Contestualmente il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi nominò i Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato nelle persone di Vittorio Emanuele Orlando e Pietro Tomasi della Torretta, per sottolineare una ideale continuità tra l’antica Camera dei Deputati e l’Assemblea che sarebbe stata liberamente eletta sulla base della nuova Carta Costituzionale.

La Consulta Nazionale

In assenza di un’assemblea elettiva, che rappresentasse la Nazione nei confronti del Governo e che assumesse il potere legislativo, che, in quel momento era ancora nelle mani dell’Esecutivo, man mano che si avvicinava la definitiva liberazione dalle truppe nazifasciste, si cercò di costituire un organismo con il compito di interloquire con il Governo. Anche se non elettivo, tale organo valeva a temperare, pur in tempo di guerra, la centralità del potere esecutivo. Il decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146, istituì, quindi, la Consulta Nazionale, deputata ad affiancare il Governo con i propri pareri su questioni normative di particolare rilevanza. Si trattava di un apparato consultivo teso ad ovviare alla mancanza di quegli organi parlamentari, ai quali si intendeva dare vita alla fine della guerra, con la riorganizzazione complessiva dello Stato. La Consulta Nazionale, tra le altre cose, predispose il testo della legge elettorale per la nomina dei membri dell’Assemblea Costituente.

Il riconoscimento del diritto di voto e dell’eleggibilità delle donne e il referendum tra monarchia e repubblica

Prima di quel provvedimento, un altro atto legislativo aveva esteso il diritto di voto alle donne.

Il suffragio universale e l’eleggibilità delle donne

Il 31 gennaio del 1945, mentre il territorio italiano era ancora diviso tra un Nord sottoposto all’occupazione tedesca e un Centro-Sud ormai liberato dalle forze armate anglo-americane, il Consiglio dei ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne. Era il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945. Venne così riconosciuto il suffragio universale, dopo i tentativi falliti del 1881 e del 1907, compiuti dalle donne dei vari partiti. Grazie a quel decreto potevano votare le donne con più di 21 anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati». Il decreto, però, aveva trascurato un piccolo particolare: l’eleggibilità delle donne. Questa venne stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946. La prima occasione di voto per le donne furono le elezioni amministrative del 1946. Votò l’89 per cento delle aventi diritto e 2 mila candidate furono elette nei consigli comunali (la maggioranza nelle liste di sinistra).

Il decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98

Il decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98, successivo di quasi un anno alla Liberazione del Paese (25 aprile del ’45), modificò ed integrò il decreto n. 151 del 25 giugno 1944. Fu il decreto del 16 marzo ‘46, infatti, ad affidare ad un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello Stato. Inoltre essa stabilì che, qualora la maggioranza degli elettori votanti si fosse pronunciata a favore della Repubblica, l’Assemblea Costituente, come primo atto, avrebbe eletto il Capo Provvisorio dello Stato. Il 16 marzo 1946 il principe Umberto, quindi, aveva firmato un decreto in virtù del quale, come previsto dall’accordo del 1944, la forma istituzionale dello Stato sarebbe stata decisa mediante referendum da indirsi contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Com’è noto i voti favorevoli alla repubblica saranno numericamente superiori alla somma complessiva non soltanto di quelle favorevoli alla monarchia, ma anche di quelle bianche e nulle [2].

Le posizioni dei partiti

Come i tradizionali partiti di orientamento repubblicano (PCI, PSIUP, PRI e Partito d’Azione), anche la Democrazia Cristiana, nel suo primo Congresso, decise di schierarsi a favore della Repubblica. Il solo partito del CLN favorevole alla monarchia fu il Partito Liberale, mentre il neocostituito Fronte dell’Uomo Qualunque prese una posizione agnostica.

L’ultima mossa della corona: l’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto

Un mese prima del referendum Vittorio Emanuele III abdicò in favore del luogotenente del Regno, suo figlio Umberto. La speranza era che la successione del principe ereditario, meno compromesso del padre con la sciagurata catastrofe del fascismo, potesse far pendere l’esito del referendum a favore della monarchia. I partiti favorevoli alla Repubblica, dal canto loro, protestarono, poiché l’assunzione dei poteri regali, da parte del luogotenente del Regno, contrastava con l’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo ’46. Quell’articolo, infatti, prevedeva che: «Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della Monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato». Partito subito l’ex re per l’esilio volontario ad Alessandria d’Egitto (vi morì due anni dopo), Umberto II confermò la promessa di rispettare il volere liberamente espresso nel referendum dai cittadini circa la scelta della forma istituzionale. Però, non lo accetterà mai.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Salerno rimase la sede del governo fino al giorno della liberazione di Roma (il 4 giugno ’44).

[2] La partecipazione delle donne al Referendum e all’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente fu elevatissima. Per quanto riguarda le donne elette alla Costituente, esse furono 21 (su 226 candidate), pari al 3,7%: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e una dell’Uomo qualunque. Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”. La commissione era incaricata dall’Assemblea di scrivere la nuova proposta di Costituzione. Fu la socialista Merlin a battersi perché venisse specificata la parità di genere nel testo dell’articolo 3 comma 1° della futura Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»

 

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