Il naufragio più grave mai accaduto nel Mediterraneo

Settantasette anni fa si consumava un naufragio terribile, uno dei più disastrosi nella storia dell’umanità. Certamente il più grave naufragio accaduto nel Mediterraneo.

In quel naufragio di fronte allo straordinario promontorio ellenico di Capo Sunio, morirono più di 4.000 italiani. Però, per chi era al governo di una parte del nostro Paese, gli affogati nelle prime ore del 12 febbraio del 1944 non erano altro che dei traditori della patria, degli anti-italiani, e non meritavano alcuna pietà.

Quegli  oltre 4.000 italiani, infatti, erano passeggeri un po’ particolari. Non avevano scelto di fare quella traversata da Rodi al Pireo. Vi erano stati costretti. Stavano iniziando il loro viaggio verso i campi di prigionia nazisti.

C’era la guerra…

C‘era la guerra e 4.0oo morti per naufragio non potevano provocare nel mondo lo stesso effetto che produrrebbero oggi. Del resto, anche oggi la nazionalità delle vittime conta parecchio rispetto alla risonanza delle notizie. In ogni caso, in quel 12 febbraio del 1944, in Italia e nel resto d’Europa le persone crepavano come le mosche. Incalcolabile era il computo quotidiano dei morti militari e civili, per via della spaventosa carneficina bellica in corso da più di quattro anni. Inoltre c’erano le persone che non morivano sul campo di battaglia o sotto i bombardamenti, ma che venivano liquidate nella realizzazione dei programmi nazisti di sterminio, nei lager e altrove.

Ma non fu soltanto la spaventosa contabilità quotidiana dei lutti ad oscurare allora, e a relegare in un angolo semibuio nei decenni seguenti, il naufragio del piroscafo Oria. Un generale senso di imbarazzo, di vergogna, per la condotta dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale ha contribuito non poco a far scendere l’oblio su un’infinità di fatti. Tra le cose rimosse, nel nostro Paese, ad esempio, ci sono anche i 620 mila morti greci, di cui 360 mila deceduti per fame, provocati dall’occupazione fascista.

Pigiati come sardine

L’Oria, costruito nel 1920 nei cantieri Osbourne, Graham & Co di Sunderland, era un piroscafo da carico norvegese, della stazza di 2127 tsl, requisito dai tedeschi e impiegato per trasferire i soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre del ’43. A bordo, oltre a 90 tedeschi di guardia o di passaggio, all’equipaggio norvegese e ad un carico di bidoni di olio minerale e di gomme da camion, erano stati stipati oltre 4000 militari italiani catturati. Troppi per quel piroscafo. Così lo ricordava Aldo Percivale, un genovese di 22 anni, sopravvissuto al naufragio.

Di bocca in bocca avevamo saputo che il piroscafo era norvegese: era conciato talmente male che a salire là sopra bisognava proprio esserci costretti. Ci guardavamo attorno e ci chiedevamo come avrebbero potuto caricarci tutti, ma i tedeschi continuavano a farci salire, e nel frattempo caricavano barili e un sacco di altra roba.. A un certo punto nella fila che mi scorreva a fianco ho riconosciuto un certo Rizzo ( l’esattezza di questo cognome non è certa) originario delle mie parti, anche se non proprio del mio paese. L’ho chiamato. Lui mi ha riconosciuto a sua volta e subito mi ha fatto segno di passare nella sua fila per stare insieme, che tanto ormai la nostra appartenenza a questo o a quel reggimento non aveva più importanza. Io ci ho pensato un attimo, poi gli ho risposto di no: avevo deciso di rimanere lì dove mi avevano messo qualunque fosse stato il mio destino. La mia fila è stata fatta salire sul ponte della nave, l’altra fila letteralmente cacciata nelle stive. Li hanno chiusi là sotto come topi in gabbia. Noi almeno potevamo respirare. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di quei poveretti là sotto. Forza ragazzi, forza, ripetevo: a me, a loro, e a tutti quelli che avevo vicino“.

Anche Silvano Lippi era tra quelli fatti salire a bordo del piroscafo Oria, ma prima della partenza insieme ad altri venne trascinato fuori, perché i tedeschi si erano infine resi conto che con quel sovraccarico il piroscafo rischiava fare naufragio già nel porto. Stipato su un altro piroscafo, Lippi così ricorda “le operazioni di carico”:

Io feci di tutto, resistendo ai colpi dei calci dei fucili nella schiena, pur di salire fra gli ultimi e così fu. Non so quante ore sono stato aggrappato al boccaporto pur ti tirarmi su da quella calca inimmaginabile di persone che avevo sotto di me, perché eravamo a strati e i primi entrati facevano la fine peggiore. Quella di morire soffocati e,infatti, io sentivo un gran gridare sotto di me ed allo stesso tempo mi sembrava che le mia gambe prendessero fuoco… Quei poveretti cercavano disperatamente di aggrapparsi alle mie gambe per tirarsi un po’ su e respirare, come facevano con altri che erano nella mia stessa posizione. Una volta sbarcati al Pireo mi accorsi che avevo le gambe scarnificate dai graffi e tanti di quei poveretti erano morti soffocati durante la traversata. Se ci penso mi viene da piangere anche ora che sono passati quasi 70 anni”.

Da alleati, poco rispettati, dei tedeschi ad alleati, poco apprezzati, degli anglo-americani

Con l’armistizio annunciato l’8 settembre del 1943, dal maresciallo Pietro Badoglio, che dopo 21 anni di dittatura fascista, il Re aveva nominato capo del Governo al posto di Mussolini, gli italiani passavano dalla condizione di alleati poco rispettati e appena sopportati del Terzo Reich a quella di alleati poco apprezzati degli angolo-americani e di nemici disprezzati e odiati delle truppe naziste. E questo, improvviso e improvvisato, cambio di fronte, così cialtronescamente gestito, costò subito carissimo a tante migliaia di persone (ne abbiamo dato conto in diversi post su questa rubricaquiqui , qui e qui). Incluse coloro che, indossando l’uniforme, in Italia come nei territori occupati, furono indisponibili a schierarsi con i tedeschi e con i fascisti della Repubblica Sociale Italiana (della RSI abbiamo ricordato qui la costituzione). Tra questi sventurati vi furono anche coloro che presero parte alla fallimentare Campagna del Dodecanneso: cioè, a quel disperato tentativo delle truppe italo-anglo-greche, stanziate nel Dodecanneso, allora territorio italiano, e nella vicina isola di Samo, di resistere all’occupazione delle truppe tedesche, combattendo anche aspramente (sulle isole di Lero, Rodi e Cos).

Per i tedeschi non eravamo più soldati e neanche uomini, ma soltanto traditori

Quei 4000 italiani morti nel naufragio dell’Oria, infatti, erano tra le decine di migliaia di soldati italiani che, spediti all’inizio della guerra da Mussolini sulle Isole del Dodecanneso, si erano rifiutati di aderire al nazismo o alla RSI dopo l’Armistizio del ’43. Così riassunse efficacemente la situazione degli italiani, Percivale:

Per i tedeschi non eravamo più soldati e neanche uomini, ma soltanto traditori. Meritavamo di essere trattati nel peggior modo possibile, e se stavamo ammassati, schiacciati uno contro l’altro, senza mangiare né bere, ancora grazie, che invece avrebbero dovuto fucilarci tutti. Questo era quello che ci dicevano i nostri ex-alleati, e per loro ogni angheria nei nostri confronti era giustificata“.

Il naufragio

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Il piroscafo, scortato dalle torpediniere TA 16TA 17 e TA 19, salpò alle 17,40 dell’11 febbraio, sebbene il comandante Rasmussen fosse contrario ad intraprendere la navigazione.

Il siluramento del piroscafo Petrella

Era giustamente preoccupato, Rasmussen. Oltre alle pessime condizioni meteorologiche, a sconsigliare il viaggio vi erano anche altri fatti. Si era appena avuta notizia che pochi giorni prima, a Creta, nella baia di Suda, il piroscafo Petrella era stato affondato dal sommergibile HMS Sportsman. Il sommergibile britannico aveva silurato un’imbarcazione nemica, ma la sua azione aveva tolto la vita a oltre 2.500 nuovi alleati della Gran Bretagna. Erano militari italiani catturati dai tedeschi quelli che il Petrella stava trasportando (ce n’erano circa 4000 a bordo). I tedeschi, tuttavia, se ne infischiarono delle preoccupazioni di Rasmussen e imposero la partenza.

La tempesta

I deportati dell’Oria, però, non persero la vita a causa dei siluri britannici, ma per il sovraccarico e per le condizioni del mare.

Quando il piroscafo si è mosso era quasi buio”, ricordò Percivale. “Faceva freddo e il mare era piuttosto agitato: noi stavamo là in mezzo alle onde, senza poterci muovere, incastrati, un po’ a farci coraggio, un po’ muti nella nostra disperazione. C’era chi stava male, e nessuno poteva far niente per nessuno. Poi nella notte si è scatenata la tempesta; vento e pioggia fortissimi hanno investito il piroscafo che ha iniziato a imbarcare acqua. Sembrava il diluvio. Io credo che tutti, proprio tutti avessimo la certezza che stavamo affondando”.

Per i 43 ufficiali, 118 sottufficiali e 3885 soldati italiani quel rollio doveva essere una vera tortura, schiacciati l’uno contro l’altro com’erano.

“Arrivati al largo del porto”, disse Pietro Sordi, un altro dei sopravvissuti, “la nave cominciò a fare l’altalena e lì dov’ero io in stiva, uno rigettava sulle ginocchia del compagno, l’altro sulla spalla, il terzo sbuffava sulla faccia del compagno. Tutta la nave era piena di singhiozzi, di lamenti di dolore. 

L’incidente

A sole venticinque miglia dalla sua destinazione, l’Oria s’incagliò nei bassi fondali prospicienti l’isola di Patroklos, di fronte a Capo Sunio. “Poi c’è stato il boato dello schianto, il rumore del mare, le grida e l’acqua che mi entrava in gola. Per un po’ ho cercato di nuotare, ma verso dove?“, ricordò Percivale.

Le pessime condizioni meteorologiche ostacolarono seriamente i soccorritori greci del luogo. Che riuscirono ad essere di aiuto soltanto il giorno dopo. Vennero salvati 37 italiani, 6 tedeschi, 1 greco, 5 uomini dell’equipaggio, incluso il comandante Bearne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina.

“Si doveva dare l’idea che essi fossero morti per difendere il fascismo”

I cadaveri di circa 250 naufraghi, trascinati sulla costa dal fortunale vennero sepolti in fosse comuni. Giulio Antonacci, era tra quelli in coda per imbarcarsi sull’Oria che all’ultimo non furono caricati, per l’evidente sovraccarico del piroscafo. Portato ad Atene, fu adibito a scavare la fossa comune dove interrare i corpi portati a riva dal mare.

Terminata la fossa comune, venne fatta mettere su di essa una cornice di sassi a forma di stemma fascista, vennero piantati dei fiori di campo e fu fatto scrivere (sempre coi sassi) DUX, in quanto si doveva dare l’idea che essi fossero morti per difendere il fascismo; ma la realtà era ben diversa: erano morti per sfuggire al fascismo, infatti tutti i passeggeri erano considerati Badogliani, sovversivi per non aver aderito alla Repubblica di Salò“.

Il monumento, la commemorazione e quel sommozzatore greco

Il 12 febbraio del 2014 è stato inaugurato nei pressi di Capo Sunio, un monumento per esaudire il desiderio della “Rete dei familiari dei dispersi nel naufragio del piroscafo Oria“. Da allora, ogni anno si è svolta, con il sostegno delle autorità locali e di quelle diplomatiche italiane, una cerimonia di commemorazione, alla presenza di autorità civili e religiose e di delegazioni delle rappresentanze diplomatiche straniere. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il 6 settembre del 2017 visitò il monumento. E quell’anno conferì a Aristotelis Zervoudis una delle più elevate onorificenze che possa essere concessa dalla Stato Italiano ad un cittadino straniero. Il signor Zervoudis, infatti, nel 1999 aveva individuato la posizione di quanto restava del relitto dell’Oria e aveva poi svolto delle spedizioni ad hoc.

Furono diverse le carrette del mare, cioè navi commerciali non adatte al trasporto di “passeggeri”, che vennero stipate di prigionieri italiani oltre ogni limite consentito, in spregio a qualsiasi norma di sicurezza. Non poche di queste navi furono affondate dagli Alleati, altre fecero naufragio per incidente. Furono circa 15000 i soldati italiani che affogarono per non aver voluto schierarsi con i nazifascisti.

Io non dimenticherò mai quell’uomo per quello che ha fatto per noi, e gli sarò riconoscente per sempre

“Galleggiava di tutto, e io mi sentivo pesante come se avessi avuto le tasche piene di pietre. La forza del mare era troppo per me, non ce l’avrei mai fatta. All’improvviso, quando ero sul punto di arrendermi, mi sono reso conto che con i piedi avevo toccato terra. Mi sono trascinato a riva e lì ho capito che non ero solo: c’era un altro soldato vivo, vicino a me. Ci siamo tirati su, ci siamo abbracciati, poi abbiamo cominciato a camminare insieme, cercando una direzione da prendere nel buio più totale. Quando ho sentito una mano afferrarmi per un braccio ho pensato “ecco, ci hanno già preso”, invece era un greco […] Ci ha portati in una abitazione, dentro a una grande stanza con un fuoco acceso, e attorno al fuoco ho visto una decina di altri scampati al mare, nudi, che si asciugavano come potevano. A tutti il greco ha dato da bere del vino resinato e qualcosa da mangiare. Io non dimenticherò mai quell’uomo per quello che ha fatto per noi, e gli sarò riconoscente per sempre. […]. Il giorno dopo sono arrivati i tedeschi e ci hanno ripreso in consegna. […]. In seguito, sempre prigioniero dei tedeschi, ho rischiato più volte di essere fucilato, ho subito umiliazioni di ogni tipo, ho patito la fame di continuo, giorno e notte, ho mangiato qualsiasi cosa e gli altri come me. Sono riuscito a scappare, ho camminato per giorni interi, poi mi hanno ripreso e riportato indietro. Quando finalmente sono ritornato a casa, il giorno seguente mi sono immediatamente recato dalla famiglia di Rizzo per dire quello che sapevo, e cioè che il loro figlio era finito nelle stive di quella maledetta nave e se non fosse più tornato era perché non ce l’aveva fatta” (Aldo Percivale).

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

www.it.wikipedia.org

www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2018/02/15/38/sg/pdf

www.piroscafooria.it

 

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