Potrebbe esserci “un condizionamento emotivo reciproco” tra i cittadini e i politici che parlano alla loro pancia”?

L’ipotesi proposta è che dal rapporto tra politico (soggetto o partito) “che parla per lo più alla pancia” e cittadini potrebbe prodursi una situazione nella quale il potere effettivo  finisca con l’essere prevalentemente in mano all’esasperazione e all’estremizzazione emotiva.

Infatti, un’ipotetica acquisizione del consenso maggioritario derivante dal proporsi come diretti traslatori sul piano politico-istituzionale della paura, della rabbia, dello scontento e della sfiducia dei cittadini, mi pare, che potrebbe influenzare contemporaneamente sia il piano legislativo e amministrativo che il rapporto stabilito con l’elettorato: se una parte consistente dei cittadini fossero ipernutriti nel corso della propaganda elettorale da una comunicazione prevalentemente emotiva e, dunque condita di espliciti, o impliciti e perfino involontari, messaggi sulla percorribilità di una radicale semplificazione dei problemi e delle soluzioni, allora, poi, la loro attesa potrebbe essere quella di risultati precisamente corrispondenti a quelli immaginati. Così, se si comunicasse prima delle elezioni a tambur battente che la rabbia, la frustrazione e la paura dei cittadini trovano la causa principale nei guai della comunità dovuti all’indecisione, all’irresolutezza, all’incapacità o all’immoralità della leadership precedente, pur inviando anche messaggi espliciti tesi a ridimensionare aspettative fantastiche in caso di vittoria elettorale (si veda anche il post su Grillo e Renzi rivendicano...), le attese degli elettori, dopo lo spoglio delle urne, potrebbero essere poco aderenti al piano di realtà.

Del resto perché dovrebbero esserlo? Se gli è stato spiegato, e se ormai credono profondamente anche loro, che la causa dei disagi e delle ingiustizie è tutta riconducibile alle colpe dei “cattivi” e/o degli “incapaci” che hanno governato finora, con l’arrivo dei “buoni” e/o dei “capaci” sarebbe logico prevedere la rapida risoluzione dei problemi e delle sofferenze della società.

Consapevole del carattere cogente di tali aspettative, il partito che avesse vinto le elezioni parlando alla pancia, allora, potrebbe essere: indotto, da un lato, ad un’attività legislativa e amministrativa che invera la “legge di Grossman: “i problemi più complessi hanno soluzioni semplici, facilmente comprensibili e sbagliate” (Arthur Bloch). Quindi, potrebbe trovarsi costretto ad un’attività contraddistinta da un’ottusa coerenza con gli slogan elettorali e le rappresentazioni drastiche del suo elettorato, volontariamente o involontariamente suscitate durante la campagna, sulla sua successiva azione di governo; dall’altro, a giocare in difesa, non potendosi mai permettere di dire che nella campagna elettorale è stato troppo tranchant e che in fondo ha promesso troppo, ammettendo quel che, in generale, capita ad ogni essere umano, cioè di non riuscire nei fatti ad essere all’altezza della propria eloquenza. Infatti, al di là delle note caratteriali favorevoli o meno a tale tipo di manifestazione di onestà (scusarsi per l’errore), a disincentivarla vi sarebbe presumibilmente l’azione comunicativa di almeno qualcuno degli altri partiti usciti sconfitti dalla tornata elettorale. Costoro, si può ancora ipotizzare, avrebbero gioco facile sia nel rinfacciare la difformità tra le promesse fatte e quelle mantenute – potendo, così, sottolineare la validità delle critiche rivolte nella campagna al carattere irrealistico del programma poi, invece, premiato dagli elettori -, sia nel seguire l’esempio comunicativo del vincitore, cioè a loro volta prospettare soluzioni facilmente intellegibili e non implicanti complesse spiegazioni. Non ci vuole, poi, molto, in effetti, nei momenti di disperazione diffusa, stando all’opposizione, ad apparire rassicuranti: potrebbe bastare proporsi come immuni da dubbi e confermare all’elettorato la sua irresponsabilità rispetto ai problemi dell’epoca o del momento.

Nelle condizioni fin qui immaginate, alla nuova leadership di governo, per tentare di preservare l’immagine velatamente eroica e mitica costruita nel periodo pre-elettorale agendo con e sulle emozioni dell’elettorato, rimarrebbe ancora l’argomento duplice, provvisoriamente efficace, sebbene tante volte veritiero, della portata insospettabile dei relati guasti compiuti dalla precedente amministrazione e della resistenza disperata, ma subdola e sotterranea, dell’establishment al cambiamento.

Però, tale argomento a lungo andare cozzerebbe con un ostacolo: se il cittadino non si rendesse conto del rapporto di forte identificazione instauratosi e di avere fatto proprie le categorie, gli schemi, le interpretazioni della realtà, talora gli slogan, del rappresentante, idealizzato come proprio fedele interprete, si aspetterebbe che costui agisse effettivamente sul piano della politica le emozioni di cui si era fatto traslatore nella campagna elettorale (emozioni, che magari aveva alimentato e in qualche occasione forse anche insinuato). E, se una volta al governo (di una città, di una regione o dello stato) la realtà inibisse l’attuazione del programma politico percepito dall’elettorato (che può non essere sovrapponibile a quello messo nero su bianco, ma contano le percezioni), il cittadino, difficilmente diverrebbe consapevole della sua eccessiva idealizzazione. Infatti potrebbe evitare di mettere in discussione tale dimensione psicologica e preservare la giustezza dei sentimenti e delle emozioni precedentemente provate, rappresentandosi come portatore di un’innocenza tradita dal politico rivelatosi a conti fatti uguale a tutti gli altri. Sarebbe alquanto difficile, cioè, che quel cittadino, nella condizione qui prefigurata, realizzasse di avere posto in essere i perfetti presupposti emotivi e relazionali di quell’eccesso di fiducia,  che sono prodromici a far sì che possa poi percepirsi vittima di un abuso di fiducia da parte del politico non appena l’azione di questo, dovendosi misurare con la realtà, non gli appaia più all’altezza dei risultati attesi.

Naturalmente al di là del tono profetico con il quale mi sono espresso in questo e nei due post precedenti – La politica che parla (soprattutto) alla pancia e La politica che non parla (o parla poco) alla pancia ma (soprattutto) alla testa -, ritengo che il principio del beneficio d’inventario e quello della presunzione della buona fede dovrebbero applicarsi anche riguardo al politico che parlando alla pancia ottenesse la maggioranza dei consensi.

Non credo, però, che nella dinamica dell’escalation del conflitto politico tali criteri siano facilmente dispiegati dalle parti. Per lo più anzi si annacquano fino ad essere affogati. Infatti, se non sono stati, in ipotesi, rispettati dalla minoranza prima delle elezioni, quando al governo vi erano altri leader o altre forze politiche, difficilmente sarebbero applicati da parte di costoro, una volta che siano finiti all’opposizione. E, in tal modo, se i ragionamenti fin qui fatti tengono, il cerchio si chiude. Cioè, in conclusione e ricapitolando: l’escalation del conflitto politico pre-elettorale avrebbe impedito l’ascolto politico tra i leader e i partiti in campo e tra questi e i cittadini, non agevolando o addirittura ostacolando la capacità di pensare di (quasi) tutti: i politici al governo, quelli all’opposizione, i nuovi o i vecchi vincitori, quelli che vanno o che restano all’opposizione, i cittadini-elettori.

Ultima annotazione: mentre in altri post vi era un riferimento esplicito ad affermazioni proposte da politici italiani (La campagna di ascolto lanciata da Renzi offre l’occasione per ribadire che l’ascolto politico non è un’azione di seduzione politica), la suggestione alla base di questo proviene soprattutto dal cinema: due trasparenti metafore anti-maccartiste, Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954) e La campana ha suonato (Allan Dwan, 1954), Mystic River (Clint Eastwood, 2003) e, in qualche misura, La giusta distanza (Carlo Mazzacurati, 2007).

 

Alberto Quattrocolo

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