Il conflitto politico-amministrativo

Chiamiamo, per pura comodità, conflitto politico amministrativo quello che si produce talora nel rapporto tra cittadini e amministrazione pubblica.

Occorrerebbe, a tale riguardo, soffermare l’attenzione sul fatto che compito tradizionale di chi si occupa della cosa pubblica sono anche la prevenzione, quando è possibile, necessario o opportuno, e la gestione dei conflitti presenti in una data comunità (locale, regionale o nazionale). Si fa riferimento non all’azione dell’autorità che applica senza indugio e direttamente le norme ponendo termine alla controversie sul piano giuridico, ma all’attività svolta dall’ente pubblico nella ricerca di una composizione della controversia, non tanto a livello giuridico ma, soprattutto, sul piano sociale e, in senso lato, sul piano politico-amministrativo, attraverso scambi, comunicazioni e confronti tra le parti.

Talora, tale funzione è assolta in posizione di completa terzietà, ma, forse, più spesso, è nella natura delle condizioni date che essa sia svolta in presenza di una maggiore prossimità verso una delle parti, in ragione di un vincolo normativo, oppure per una convergenza di interessi, per una comune sensibilità o prospettiva sulla questione controversa, oppure per una più profonda affinità culturale o politica.

La difficoltà di essere riconosciuti come neutrali (quando lo si è)

Tuttavia la gestione della neutralità è problematica anche allorché, il terzo – l’istituzione pubblica impegnata nella gestione del conflitto – è davvero completamente neutrale.

Infatti, caratteristica tipica del conflitto è quella di stimolare gli attori a cercare nei terzi (giudici o incaricati di svolgere una gestione alternativa della contesa) più degli alleati e dei sodali, che dei soggetti neutrali. E, su questo terreno, le “trappole operative” per chi si propone quale gestore non giurisdizionale di un conflitto sono assai insidiose.

Vi entrano in gioco attese esplicite e implicite, perfino inconsce, riposte su tale figura dalle parti e, talora, anche quelle nutrite, consapevolmente e inconsapevolmente, da essa su di sé, così come da chi l’ha chiamata o sollecitata a svolgere la funzione manageriale del conflitto.

A complicare le cose, in realtà, concorre il fatto che spesso sono molteplici non solo i livelli del conflitto tra le parti (l’eterogeneità degli interessi materiali, dichiarati e nascosti, il carattere talora elusivo talaltra granitico degli aspetti simbolici, valoriali e identitari implicati), ma anche quelli dei rapporti tra queste e il terzo.

Vi sono le dimensioni di tipo razionale ed emotivo più pertinenti all’oggetto disputato, e agli esiti perseguiti o temuti della contesa, e quelle, di nuovo di entrambi i tipi, afferenti alla qualità del rapporto tra le parti e il terzo. Ci si riferisce, cioè:

  • alle aspettative e alle preoccupazioni nutrite da ciascuna parte circa il suo rapporto con il terzo
  • a come ciascuna parte percepisce e valuta il rapporto stabilitosi tra la controparte e il terzo.

Entrambe le dimensioni sono di rilevanza cruciale sul piano dell’efficienza e dell’efficacia dell’intervento di gestione del conflitto. Lo dimostra il fatto che la scarsa attenzione su uno dei due piani spesso condiziona, inficiandola, la comprensione delle posizioni reali delle parti contrapposte, del significato profondo dei loro messaggi espliciti e impliciti, delle posizioni e delle intenzioni dichiarate e di quelle sottostanti le dichiarazioni rese.

Dall’incomprensione da parte del terzo delle motivazioni, degli interessi o delle istanze e dei significati simbolici, affettivi o valoriali in gioco per questo o quell’attore del conflitto al peggioramento del rapporto tra le parti in lite il passo è breve, ma altrettanto breve, e forse di più, è la distanza che il conflitto deve compiere per allargarsi al coinvolgimento passivo, dapprima, attivo, quasi inevitabilmente poi, del terzo stesso.

Infatti, il peggior risultato che si può concretizzare nel tentativo di gestire un conflitto –  esito negativo che spesso, in verità, si concretizza – non è la mancata risoluzione del conflitto, ma la sua estensione anche alla figura dell’arbitro/conciliatore/mediatore-negoziatore.

Un’apparente paradosso si compie allorché le parti scoprono di condividere la stessa irritazione e/o sfiducia verso il terzo.

Spesso accade, infatti, che le due o più parti contrapposte percepiscano e ritengano il terzo schierato pregiudizialmente e/o sostanzialmente contro di loro, oppure che si sentano da esso tradite nella loro aspettativa di un occhio di riguardo, di una maggiore solidarietà, ecc. Non meno raramente le parti in lite, allora, finiscono con il delegittimare il terzo, diventandogli ostili e facendo sfumare ogni auspicio di tipo collaborativo in ordine alle trattative in corso o prospettate.

Neutralità e applicazione delle norme

Difficoltà di non minor rilievo si pongono allorché l’istituzione si trovi a dovere gestire un conflitto rispetto al quale, in ossequio alla legge, la sua posizione non possa dirsi neutrale in ordine alla risoluzione da conseguire, vale a dire: l’applicazione della legge stessa.

Anche in tali casi, infatti, l’obiettività e l’equità della legislazione, magari contestate da una o più parti, non garantiscono l’autorità che tenta di provvedere alla sua esecuzione dall’essere coinvolta nella contestazione stessa. Non è sufficiente richiamarsi al principio della inderogabile necessità di conformarsi alla legge per evitare di essere intrappolati nelle spire polemiche, che possono portare ad atteggiamenti e messaggi finalizzati alla delegittimazione dell’autorità stessa. Il che, se è in ogni caso non poco problematico, lo è ancor di più, sotto certi riguardi, quando si tratta di un’autorità pubblica di natura elettiva.

Anche in tali situazioni, pertanto, notevoli sono i risvolti critici con cui fare i conti nel caso in cui si opti per la via della gestione del conflitto e non della sua risoluzione con la forza dell’autorità legale. D’altra parte, non necessariamente minori sono gli aspetti problematici connessi alla scelta di una modalità direttiva di intervento concretizzantesi nella diretta esecuzione delle disposizioni normative pertinenti.

Nell’uno e nell’altro caso, in effetti, un criterio guida spesso adottato è quello di tentare di produrre il minor malcontento possibile: ciò per lo più, operativamente, si traduce nell’avvio di percorsi che si differenziano per una maggiore o minore rilevanza attribuita al confronto con e tra le parti di plasmare la soluzione concreta nel merito. Ma, in ogni caso, fa capolino, in entrambe le tipologie di percorso, ancora una volta l’importanza di un ascolto non meramente formale degli interlocutori. Quindi, anche in tali situazioni, l’ascolto e la comunicazione ad esso intrecciata sono essenziali.

Tuttavia, anche in simili circostanze, spesso l’autorità interveniente non riesce a far sì che le parti sappiano distinguere tra l’ascolto e la comprensione, da un lato, e le risposte concrete che essa darà, dall’altro. Spesso perché tale distinzione, teoricamente semplice e di schietta evidenza, non è chiara neppure per l’autorità stessa.

 

Alberto Quattrocolo