«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara»

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» : proposta di un sottotitolo per Il cacciatore di Micheal Cimino

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» : potrebbe essere questo il sottotitolo della celebrata, discussa e famosissima, opera seconda di Micheal Cimino, Il cacciatore (The Deer Hunter), che uscì nelle sale italiane l’8 dicembre del 1978 (supponendo che tutti o quasi lo abbiamo visto e lo ricordino, per una sintesi della trama si rimanda alla nota[1]).

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» si presterebbe come sottotitolo o come frase di lancio, perché, in qualche misura, è quel che succede ai personaggi del film. «Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» fa venire in mente, però, anche l’attualità, se non si intende quello «spara» in senso letterale, ma nel senso di un agire irriflessivo. In senso anche letterale, comunque, rinvia alle stragi che di tanto in tanto insanguinano gli States da decenni. E al cinefilo può far rammentare una celebre battuta pronunciata da Humphrey Bogart, nei panni di Philip Marlow, in Il grande sonno (1946), di Howard Hawks: «Così tante pistole in giro e così pochi cervelli!».

Tornando a Il cacciatore, tutti i personaggi sembrano avere enormi difficoltà nel rapportarsi con le loro emozioni e con i loro sentimenti. Se sullo schermo, grazie all’accortezza della sceneggiatura, balza all’occhio dello spettatore quanto per ciascuno di essi sia difficile comunicare con l’altro, la regia di Cimino e le qualità straordinarie degli attori (Robert De Niro – Mike, Christopher Walken – Nick, John Savage – Steve, John Cazale – Stan, Meryl Streep – Linda, George Dzundza – John, Chuck Aspegren – Axel) riescono a far arrivare alle platee qualcos’altro, qualcosa di più profondo [2]. Quegli interpreti, grazie ad un lavoro sottile sulle sfumature, riescono a far sentire allo spettatore come quello dei personaggi da essi interpretati sia un problema non riconducibile ad uno scarso livello di istruzione [3].

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara», cioè, agisce quel che non sa di sentire

Sono della classe operaia e non sono andati all’Università, d’accordo, ma ciò non significa che non sappiano parlare. Sono cittadini americani figli di immigrati lituani, sì, ma parlano un buon inglese [4].

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» perché non riesce a comunicare ciò che prova

Tutti i personaggi hanno momenti in cui il loro relazionarsi con l’altro pare sospeso. È come se fossero sul punto di dire qualcosa che poi però le loro labbra non pronunciano. Esitanti e perplessi in molte situazioni, quindi, lo sono tutti, ma i loro tentennamenti raramente vengono espressi in termini di dubbi consapevolmente nutriti. E anche quando ciò accade è solo una sorta di incespicare del pensiero, lo sforzo appena accennato di una mente che non riesce a racchiudere con le parole il sentimento che si vorrebbe, si dovrebbe o si potrebbe esprimere.

In queste condizioni, allora, agiscono. E ciò riguarda invariabilmente i giovani protagonisti, i loro amici e almeno uno dei loro genitori.

Perché, se la madre di Steven, all’inizio del film, parlando con il prete, dà voce al suo disorientamento, alla sua impotenza e alla sua preoccupazione rispetto alla ragazza che suo figlio sta per sposare e alla sua immediatamente successiva partenza per il Vietnam, il padre di Linda, invece, è decisamente incapace di comunicare, sia pure con parole semplici, le sue emozioni. Infatti, è un alcolizzato che vive da solo con la figlia e che, quando è ubriaco, la picchia. La picchia e fa discorsi senza senso (biascica rabbioso che bucherà le gomme di tutte le auto della città): non riesce a “star dentro” ai suoi tormenti né a comunicare ciò che prova. Si potrebbe dire che «Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» alcool giù nello stomaco. Il che, però, non vale solo per il padre di Linda.

Analogamente agiscono anche gli altri, che, seppure non maltrattanti verso i loro famigliari, ingollano birra o whiskey ad ogni occasione e nella prima ora del film sono quasi sempre con una bottiglia o un bicchiere in mano, anche quando vanno a caccia sulle montagne. E le loro azioni, i loro atteggiamenti sono quasi sempre condizionati dall’alcool generosamente ingurgitato, per addomesticare, reprimere, esaltare o alleggerire le emozioni provate.

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» perché non riesce a comprendere ciò che prova

Certo non sono poche nel film anche le interazioni in cui sulla spontaneità paiono prevalere il riserbo, il pudore, l’imbarazzo o un terribile disagio.

Ma anche in tal caso il rapporto conflittuale con il sentimento provato – forse anche per la paura che possa essere ingombrante per l’altro non meno che per che se stessi -, in effetti, pare essere così radicato da dare luogo ad una sua inconoscibilità più che ad una incomunicabilità. Quasi che la costante repressione della comunicazione dei propri vissuti abbia dato luogo alla difficoltà di racchiuderli, definirli e contenerli in pensieri coscienti, vale a dire, in parole pensate.

Anche qui gli esempi sono davvero numerosi: Angela che, ridotta quasi alla catatonia, non riesce a dire a Mike dove si trova suo marito Steve, rientrato dal fronte con le gambe amputate, e arriva, così, a dover scrivere su un quadernetto il nome dell’istituto di cura in cui è inserito; Mike che, nella stessa scena, le ripete invariabilmente e meccanicamente, con progressiva malcelata impazienza, la stessa domanda: «dove sta Steve? Dove sta?». Poi ottenuto il pezzetto di carta con sopra l’informazione richiesta, non riesce a dirle altro che un banale «abbi cura di te»; ancora Mike, che, adirato con Stan, come sempre disorganizzato e propenso a scordarsi l’equipaggiamento per la montagna e la caccia, dice, in maniera sibillina per gli altri, con la voce adirata: «Lo vedi Stan? Questo è questo. È un proiettile. E non è un’altra cosa» [5].

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» a parole

Un altro esempio di incapacità, o indisponibilità, radicale di comunicare con il mondo esterno è quella dimostrata dal sergente dei Berretti Verdi, reduce dal fronte vietnamita, che, seduto al bancone ingolla whiskey, e ripete meccanicamente, come uno sparo, «In culo». Mike, da quell’impulsivo, solo apparentemente controllato, che è, naturalmente reagisce e cerca la lite.

Non si ferma a pensare che, forse, quell’uomo ha “qualche problema”, ma agisce la sua delusione per un berretto verde il cui comportamento si rivela ben lontano da quello che egli e i suoi amici, nella loro idealizzazione, si aspettavano da parte di chi indossa quella divisa. Tocca a Nick tentare di calmarlo.

Anche Nick, però, come abbiamo visto, fatica ad avere dimestichezza con il suo mondo emotivo, per quanto sia il più sensibile, il più capace di avere dubbi e quello maggiormente disposto sia ad interrogarsi che a mettersi nei panni altrui. Tutte queste doti gli sono riconosciute da Mike. Il quale gli dice apertamente che, pur volendo bene agli altri amici, se non fosse per lui, egli andrebbe a caccia da solo. Ma, anche in tal caso, questo sentimento di Mike per Nick è espresso in modo involuto, elusivo, esitante. 

Così è trattenuta anche la tentennante proposta di matrimonio che Nick fa a Linda durante la festa, quando costei afferra il bouquet lanciato da Angela. Una proposta che si conclude con un «non lo so», cui segue un’imbarazzata, intenerita ma frustrata, replica di Linda che mormora «Io credo che tu stia dicendo quello che ti passa per la testa». Il punto è che Nick, forse, almeno rispetto al suo rapporto con Linda, non sa esattamente cosa gli passa per la testa.

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» a vuoto, per fortuna

Certo Mike Vronsky è capace di essere freddo e di pensare con logica matematica nel momento di massima tensione e disperazione. Catturato dai vietcong insieme a Nick e Steve, accetta la sfida dei carcerieri e usa il suo ascendente, il suo carisma di guida morale, di principale referente affettivo per Nick, per convincerlo a giocare alla roulette russa, cui sono costretti, con più proiettili. Si tratta dell’unico modo per tentare di uccidere, a sorpresa gli aguzzini ed evadere. È un lucido calcolo della probabilità. Se non rischiamo di uccidere noi stessi, siamo già morti, è l’argomento che propone all’amico.

Nick aderisce, sì, al piano di Micheal, ma non perché lo valuti come unica logica possibile via di salvezza. Non riuscendo a pensare (il che è assai più che comprensibile in quella estrema situazione!), accetta di giocare e di spararsi in testa, fortunatamente a vuoto, soltanto perché ha fiducia nel suo amico. Si affida totalmente ai suoi nervi, alla sua autorevolezza, alla sua padronanza di sé, rimasta intatta anche in mezzo al delirio. Quindi, quasi magica e onnipotente.

Mike, però, quell’autorevolezza ce l’ha perché Nick gliela concede. Quella padronanza di sé – già stressata dalle pulsioni che teneva nascoste dentro di sé prima dell’arruolamento -, dopo l’esperienza bellica, è ormai a brandelli. È ancora il più determinato del gruppo. Ma ancor più di prima, non comunica ciò che prova. Lo tiene nascosto e, con apparente paradosso, lo agisce.

Tornato in patria, dice al tassista di non lasciarlo davanti alla sua roulotte e di proseguire per non incontrare gli amici che gli hanno organizzato la festa di bentornato.

E, al massimo della propria capacità comunicativa, poco dopo, rispondendo a Linda, quando costei gli propone di passare la notte insieme, riesce a malapena a dire: «Mi sento lontano. Molto lontano». Decisamente significativa è anche la reazione che Mike ha verso Stan, quando questi, un po’ per finta un po’ sul serio, minaccia Axel, che lo sfotte per la sua abitudine di andare in giro con un revolver.

Altro che autocontrollo! E, in fondo, tra lui e Stan le differenze non sono poi così abissali: Stan va in giro con la pistola, «come se fosse John Wayne», e non sa spiegarne a se stesso e agli altri il perché; Mike, che si sente decisamente superiore a lui, è partito per il Vietnam senza saper illustrare un perché intellegibile al suo amico-discepolo Nick, né a se stesso.

«Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» a se stesso, all’amico e all’amicizia

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Mike, come gli altri, ha dei tratti di ingenuità notevoli, che in lui, però, assurgono a livello idealistico, e ciò lo rende una persona animata da istanze contrastanti, pressoché inconciliabili [6]. E anche Nick non ne è privo, anzi, ne è in parte perfino conscio.

Nick, tuttavia, ha del tutto perso la capacità di pensare e di parlare. Lo si è già visto piangere all’ospedale, silenziosamente singhiozzante, davanti all’ufficiale medico che gli chiede i nomi dei suoi genitori [7]. Ha tentato di parlare al telefono con Linda, di cui porta con sé la foto, ma vi ha rinunciato alla prima difficoltà. Ha disertato, ma è rimasto a Saigon, senza riuscire a superare il trauma dell’abbandono da parte del suo amico-mentore. Privato di quella guida morale e di quel sostegno psicologico che l’amicizia di Mike gli assicurava, Nick ripete come una macchina il gesto di puntarsi la pistola alla tempia e di premere il grilletto. Come, involontariamente, gli aveva “insegnato” a fare Micheal, quand’erano prigionieri dei vietcong. Ipnotizzato, perso nella tossicodipendenza e ancor prima in un’angoscia indicibile, ritualizza quella scena all’infinito. E non riconosce Mike, quando questi lo scova nel locale delle macabre scommesse della roulette russa [8].

Così, questa volta è Micheal a dover accettare di partecipare alla roulette russa. Anzi, gli tocca dare tutto il denaro che ha per prendervi parte. Spera, così, di riuscire a ridestare Nick, a riportarlo a sé, a trarlo fuori dall’incubo e riportarlo agli alberi del Nord America, che gli piacevano tanto.

Quando Nick, però, pare ricordare subito si ritrae immediatamente da quel loro rapporto, ne nega l’attualità e, facendolo, ne svela i sotterranei non-detti e le antiche ambivalenze.

Ancora una volta tutto ciò non è detto a parole e non è neppure consapevolmente provato. È piuttosto vissuto da Nick come un guizzante, ottenebrato e riottoso, stato d’animo. Quindi, non essendo una consapevole emozione, quello stato interiore viene tradotto in azione non pensata, in agito. È da lui agito, in effetti, quello stato d’animo repentino, sparandosi il colpo fatale alla tempia. E a Mike non resta che cercare inutilmente di trattenerne tra le mani la vita, anche psichica, nutrita dei loro trascorsi tacitamente conflittuali e del loro antico affetto; ma essa, con il sangue, schizza irrecuperabilmente fuori dalla tempia forata di Nick.

L’amore di Micheal Cimino e la sua sospensione del giudizio verso i suoi personaggi

Ogni inquadratura del film denuncia l’amore di Micheal Cimino per i personaggi che racconta, anzi direi, per gli attori che dirige. A tutti, anche a quelli più collaterali, infatti, riserva momenti di grande vicinanza, che ne pongono in risalto la bellezza, imperfetta e, così, ancor più toccante e idonea a stimolare nel pubblico una sorta di identificazione (proiettiva?).

Se, com’è probabile che sia, Micheal Cimino era ben consapevole delle difficoltà dei suoi personaggi di relazionarsi con se stessi e con gli altri, non per questo voleva loro meno bene. Anzi, li accettava e li amava così com’erano. Senza giudicarli. E in ciò, non meno che nelle riprese dei paesaggi, pareva aver assimilato un bel po’ della grandezza d’animo, prima che tecnica, di uno dei maestri tra i maestri della Settima Arte, John Ford.

Anche negli altri suoi film, precedenti e successivi, è evidente che Cimino è innamorato dei suoi attori, tanto che regala loro inquadrature e sequenze che ne illuminano le più efficaci sfumature d’espressione: accennati indugi della macchina da presa su quei minimi accenni del volto, su quella gestualità del corpo e su quelle movenze, che subliminalmente sono capaci di suscitare il piacere dello sguardo nello spettatore. Ma la sua  consueta riserva di ammirazione estetica per tutti, in questo film, risulta davvero generosa verso i tre protagonisti maschili e verso la Streep. E, soprattutto in quest’opera, tale capacità del regista di usare la macchina da presa per far amare i suoi interpreti non è mai sganciata dalla sospensione del giudizio sui personaggi cui essi danno vita.

Be’, su questo aspetto occorrerebbe tentare di non essere da meno, riconoscendo, perciò, che porre l’occhio sulle difficoltà di Steven, Micheal, Nick e gli altri di relazionarsi con la loro vita interiore, non significa non affezionarsi ad essi. Né significa credersi superiori e supporre di non doversi misurare con analoghe difficoltà. Chi di noi non si trova, del resto, nella propria vita sociale, a volte, ad annaspare in un mare, o in un laghetto, di non-detti, talora inconsapevolmente?

Le reazioni al film possono essere interpretate come “agiti”? «Chi non riesce a pensare, alla fine, spara» giudizi (non meditati e, forse, non meritati)?

Quando il film uscì venne tacciato, negli USA come in Europa e altrove, da buona parte dell’opinione pubblica di sinistra (dai liberal ai comunisti) di essere un’opera reazionaria, veicolante un patriottismo regressivo e fuori luogo, oltre che fuori tempo massimo [9].

In realtà, come fu riconosciuto, il film non ritraeva la guerra come uno sport o come una nobile e cavalleresca impresa, anzi, ne sbatteva in primo piano l’angosciante, dolorosa, macabra e rivoltante insensatezza. Però, pur negando ogni celebrazione eroica, rappresentava la guerra in Vietnam come un incubo assurdo e spietato in cui vengono coinvolti i protagonisti, ma di cui essi non hanno alcuna responsabilità. È qualcosa che accade a loro, ma non che accade anche per causa loro [10].

Tuttavia, se allora, si fosse potuto prendere un po’ di tempo per pensare a quanto il conflitto (ideologico, culturale e politico) stava emotivamente influenzando spettatori, critici, diplomatici e commentatori vari, magari, le reazioni di rigetto sarebbero state giustificate diversamente. O, almeno, non avrebbero assunto quei toni di condanna. Se fosse stato possibile ai critici dell’epoca ascoltarsi un po’ di più, sarebbero riusciti ad evitare di sparare tanti giudizi davvero fuori bersaglio? Con senno del poi è facile rilevare che accusare un umanista come Micheal Cimino di fare apologia del fascismo, o del revanscismo, significava davvero confermare che «chi non riesce a pensare, alla fine, spara» giudizi affrettati.

Esagerando con questa chiave di lettura…

Esagerando con la chiave di lettura fin qui proposta, questa suggestione interpretativa si potrebbe applicare anche al patriottismo acritico espresso dai personaggi e dai loro concittadini [11]. Anzi, potrebbe essere impiegata per rimarcare l’attualità dell’opera, osservando come nel nostro presente tante spinte rabbiosamente nazionaliste siano suscettibili di essere interpretate come agiti, cioè, come comportamenti meramente reattivi. E sono proprio questi immediati trasferimenti di emozioni e pregiudizi inconsapevoli in condotte impulsive a procurare grandi soddisfazioni a quei leader politici intenti a stimolarli e ad avvantaggiarsene, con il loro “parlare solo alla pancia” e mai alla testa dei loro concittadini (su un’altra sezione di questo blog di Me.Dia.Re. sono stati pubblicati dei post – qui, qui, qui e qui – su tale tema, nonché su quello “dell’ascolto politico“, ossia di quell’ascolto che cerca di fare da ponte tra la testa e la pancia dell’elettorato).

Tornando a Micheal Cimino e al suo film di quarant’anni fa, ci si potrebbe spingere anche a dire che la riflessione sulla difficoltà di pensare – che porta a mettere direttamente in atto, senza il filtro della ragione, i propri sentimenti ed emozioni, cioè, appunto ad agirli (spesso con esiti distruttivi o autodistruttivi) -, in qualche modo, fosse anche la prospettiva del regista. Si potrebbe sostenere che questo fosse il suo modo di pensare, anzi, non solo a questi personaggi ma agli americani in generale. Concludendo, su questa falsa riga. che la critica di Cimino alla guerra in Vietnam fosse ancora più severa e profonda di quella di tanti altri, liberal o meno., che ne attribuivano le responsabilità al cinismo o all’ottusità dei leader politici, ma non alla scarsa capacità riflessiva del popolo americano.

E si potrebbe giungere a confortare questa tesi interpretativa con il richiamo al successivo I cancelli del cielola cui battuta chiave è «Sta diventando pericoloso essere poveri in questo Paese». Ricordare la denuncia, disperata, rabbiosa e commossa di questo capolavoro maledetto, il suo dolente contemplare il carattere sanguinario, razzista e proto-fascista delle origini e dello sviluppo dell’America capitalista, potrebbe servire, allora, a smentire le accuse di filofascismo di cui furono oggetto Il cacciatore e, soprattutto, Micheal Cimino.

Tuttavia, prima di “sparare” una simile conclusione è bene ascoltarsi e riconoscere che la simpatia e la gratitudine nei confronti del regista per le opere dirette, possono, per così dire, prendere la mano e indurre a tentarne una stiracchiata difesa. Una difesa, sul piano morale ancor prima che politico-ideologico, che, in realtà, consisterebbe nell’attribuire a Cimino delle riflessioni e delle analisi probabilmente non sue e che, semmai, potrebbero essere soltanto quelle che il sottoscritto, sotto sotto, vorrebbe che il regista e i suoi collaboratori avessero sviluppato.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Il film Il cacciatore (1978) di Micheal Cimino.

 

[1] La trama si articola in tre parti. Com’è noto, il film racconta le esperienze di alcuni giovani operai di una fonderia di Clayton, Pennsylvania, Mike Vronsky (Robert De Niro), Nick Chevatorevich (Christopher Walken), Steve Pushkov (John Savage), Stan (John Cazale) e Axel (Chuck Apsegren) e del barista John Welsh (George Dzundza), accomunati oltre che dalla fabbrica e dalle abbondanti bevute, dalla passione per le escursioni sui monti per la caccia al cervo. Ad essi si aggiungono la ragazza di Nick, Linda (Meryl Streep), maltrattata da un padre alcolista, e la fidanzata di Steve, Angela Ludhjduravic-Pushkov (Rutanya Alda), che è incinta, ma non è Steve il padre della creatura che porta in grembo. Tutti costoro vivono in un quartiere operaio, fanno una vita dura e sono immigrati di seconda generazione, di origine lituana e di religione cristiana ortodossa. Il film inizia la mattina di un sabato, con la fine del turno in fabbrica per i primi quattro personaggi sopra citati. Nel pomeriggio verrà celebrato e festeggiato il matrimonio di Steve e Angela, che sarà seguito da una battura di caccia la domenica. Il lunedì Mike, Nick e Steve saranno arruolati per essere destinati nel Sud Est asiatico.

La seconda parte del film si svolge In Vietnam. Qui, catturati dai nordvietnamiti, vengono sottoposti al letale gioco della roulette russa. Riescono, però, a fuggire dai vietcong, grazie alla determinazione di Mike che propone ai loro aguzzini di giocare, insieme a Nick, con tre pallottole nel tamburo, riuscendo a farli fuori.

La terza parte, mostra come tutti e tre finiscano male, uno nella tomba e gli altri segnati per sempre nel corpo e nella mente: Steve perderà l’uso delle gambe; Nick, scampato con una leggera ferita alla gamba, diserterà per perdersi nel sottobosco criminale di Saigon, dove, drogato, si dedicherà al “gioco” della roulette russa, diventando un “campione”. Ma la roulette russa gli sarà fatale, proprio giocando con Mike. Costui, tornerà a Saigon, a cercare Nick, avendo scoperto che invia forti somme di denaro a Steve. Mentre la città, abbandonata dagli americani e in preda al panico, sta cadendo in mano ai nord-vietnamiti, Mike scoprirà che Nick è la “star” degli scommettitori della roulette russa e accetterà di partecipare alla mortale partita col suo amico, nella speranza di indurlo a tornare in sé, a ricordarsi chi è, e a venire via da quel macabro girone infernale; Mike, il leader del gruppo, quindi, sul piano fisico non riporterà che un dolore ricorrente sopra l’occhio destro, ma sul piano morale una completa disfatta di ogni sua precedente convinzione.

[2] La sceneggiatura di Michael Cimino, Deric Washburn, Louis Garfinkle e Quinn K. Redeker, fu candidata all’Oscar, ma il premio venne vinto dall’altro Vietnam-movie di quell’anno, Tornando a casa, di cui abbiamo parlato sempre su questa rubrica. Il cacciatore vinse in tutto 5 Oscar: Miglior film a Barry Spikings, Michael Deeley, Michael Cimino e John Preverall; Miglior regia a Michael Cimino; Miglior attore non protagonista a Christopher Walken (che si aggiudicò il premio per cui concorreva anche Bruce Dern per Tornando a casa); Miglior montaggio a Peter Zinner; Migliore sonoro a Richard Portman, William L. McCaughey, Aaron Rochin e C. Darin Knight. Le altre candidature furono per De Niro (attore protagonista), che venne battuto da Jon Voight (interprete principale di Tornando a casa, premiato insieme alla co-protagonista Jane Fonda), per Meryl Streep (attrice non protagonista) e per Vilmos Zsigmond, quale direttore della fotografia.

[3] E anche se Axel (Chuck Aspegren) ripete continuamente «d’accordissimo», la sua è più una posa che una limitazione di vocabolario (è questa la battuta con cui lo sfotte Nick).

[4] Robert De Niro è Michael “Mike” Vronsky, Christopher Walken è Nikanor “Nick” Chevatorevich, John Savage interpreta Steven Pushkov, mentre il personaggio interpretato da John Cazale viene chiamato talora Stosh, oltre che con l’abbreviativo inglese Stan

[5] Altre situazioni analoghe a quelle citate possono essere le seguenti: Stan che chiede Mike, appena tornato dal Vietnam, se gli piace la sua nuova ragazza e se la trova intelligente e, quando, questi gli risponde negativamente ad entrambe le domande, replica che anche a lui non piace né la trova intelligente. Ci sta insieme, ma non sa perché; Linda che chiede a Nick, mentre si accingono ad entrare nella roulotte-appartamento che questi condivide con Mike, se potrà andare a vivere lì, quando loro due saranno sotto le armi, e che, invece, di comunicare la sua disperata rivolta al padre maltrattante, si propone di pagare loro l’affitto. Mike, che, nel frattempo, esce frettolosamente, fingendo, in modo poco credibile, di non incontrarli, per la sofferenza che gli procura il vederli insieme, essendo anch’egli innamorato di Linda. Sempre Mike che, durante la festa per il matrimonio di Steve e Angela, ubriaco, balla con Linda, ma poi non riuscendo a starle vicino, né a parlarle, le chiede se vuole una birra e cerca di superare l’imbarazzo di entrambi, che egli ha provocato con il suo palese, ma non-comunicato disagio, ma tentando di appurare con una serietà fuori posto quale marca preferisca. Poi tenterà maldestramente di baciarla, salvo ritrarsi e riprovarci ancora.

[6] Durante la prigionia prima di dice a Nick che deve scordarsi di Steve, spiegandogli seccamente che quello, poiché ha ceduto ai nervi ed è stato rinchiuso in una gabbia mezza sprofondata nel fiume, è già morto, poi, però, quando vengono soccorsi dall’elicottero, molla la presa e si lascia cadere nel fiume per restare proprio con Steve. Abbandona, in seguito, Nick, stabilisce uno strano rapporto di coppia con Linda, sottraendo all’amico abbandonato anche la fidanzata. È un traditore, quindi, che, tuttavia, cerca di restare fedele all’amicizia, così, mentre Saigon sta per cadere in mani nordvietnamite, egli vi torna per riportare Nick a casa.

[7] Quando questi, avendo letto il suo cognome, osserva che è russo, la risposta spontanea, inconsapevole di tutte le implicazioni di cui è intrisa l’osservazione dell’ufficiale, risponde: «No, americano»

[8] Esattamente come, tempo prima, scaricato, insieme a Steve, da un elicottero nei pressi del campo di battaglia, sulle prime, non era stato riconosciuto da Mike, che, avendo appena bruciato vivo un soldato nordvietnamita era come intossicato da un furore nauseante.

[9] La gran parte delle critiche negative riguardavano la descrizione dei vietmhin come feroci e crudeli aguzzini: gettano una bomba nella buca in cui è nascosta una famiglia, per poi mitragliare la madre mezza carbonizzata che ne esce con una bimba ferita in braccio; costringono i loro prigionieri americani e sudvietnamiti alla roulette russa e non fanno altro che picchiarli e strillare loro addosso, quando non li chiudono in una gabbia nel fiume infestato di topi. Anche, se occorre rilevarlo, la loro crudeltà non è mai in alcun modo ricondotta al fatto che siano comunisti, e d’altra parte, i collaborazionisti filo-americani del Vietnam del Sud non fanno, certo, una bella figura, sprofondati come sono nell’immoralità più disperata. Infine, non se la cavano meglio gli americani nelle scene della caduta di Saigon.

[10] Questa assenza di risvolti critici sul conflitto in Vietnam, associata alla rappresentazione dei nordvietnamiti e dei vietcong come disumani torturatori, provocò l’abbandono del festival di Berlino da parte della delegazione dell’URSS e degli altri Paesi comunisti, ma destò anche la reazione indignata di Jane Fonda.

[11] Mentre escono dalla fabbrica nel loro ultimo giorno di lavoro prima della partenza, Nick, Steve e Mike incontrano chi li saluta dicendo: «Per favore, ammazzane qualcuno anche per me»; alla festa, tutti e tre vanno in visibilio alla vista di un sergente dei Berretti Verdi. Successivamente in auto cantano l’inno delle Eagles Screaming, cioè della 101esima aviotrasportata. Il proprietario del supermarket in cui lavora Linda interloquisce con Mike dicendogli «Allora abbiamo vinto davvero», quasi come se ripetesse lo slogan del presidente Richard Nixon sulla pace con onore, mentre il regime fantoccio del Sud Vietnam sta per cadere totalmente dopo il completo ritiro americano. Tutti, dopo il funerale di Nick, incapaci di parlare e intenti a superare il disagio, ponendo un’attenzione esagerata alla tavola da apparecchiare, incapaci di parlarsi, cantano sommessamente nel finale God Bless America.

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