3 giugno 2017, Piazza San Carlo, Torino

Il 3 giugno 2017 fu una serata di terrore e sangue a Torino e a Londra. A Torino, il  terrore vissuto e il sangue versato furono dovuti ad un falso allarme, che fece pensare a molte delle persone presenti in Piazza San Carlo che fosse in corso un attacco terroristico. Un vero attentato si verificò, invece, sul London Bridge e nel Borough Market, a Londra, quella sera.

La sera di sabato 3 giugno 2017, a Torino, in Piazza San Carlo, veniva trasmessa su maxischermo la partita finale di Champion League, tra Juventus e Real Madrid, giocata a Cardiff. Verso le 22.15, quando l’incontro era terminato da pochi minuti, tra le 40.000 persone accalcate nella piazza, si scatenò il panico. Si disse che un certo rumore improvviso scambiato per l’esplosione di una bomba aveva atterrito alcuni, inducendoli a a correre e a spingere. In pochi minuti fu il caos. La paura di essere schiacciati e il diffondersi della voce che da qualche parte fosse in corso un attacco terroristico, si propagarono come una corrente invisibile nella folla dei tifosi.

In realtà, tra la gente, secondo quanto stabilito il 17 maggio 2019, da Maria Francesca Abenavoli, Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino, un gruppo di ragazzini, avendo spruzzato dello spray al peperoncino per rubare, avrebbe provocato il panico tra gli spettatori. In primo grado, in virtù di tale ricostruzione, sono stati condannati, per omicidio preterintenzionale, lesioni, rapina e furto, Sohaib Boumadaghen, Hamza Belghazi, Mohammed Machmachi e Es Sahibi Aymene. Ai primi tre sono stati inflitti 10 anni, 4 mesi e 20 giorni di reclusione, al terzo 10 anni, 3 mesi e 24 giorni. Il  tribunale nei prossimi mesi dovrà decidere anche sulle accuse formulate dalla Procura, per le carenze nella gestione dell’evento del 3 giugno 2017, a carico di 15 persone imputate per disastro, lesioni e omicidio colposo. Tra costoro vi sono la sindaca Chiara Appendino e l’ex questore Angelo Sanna.

Si parla di omicidio – colposo, nell’imputazione per i responsabili della gestione dell’evento, e preterintenzionale, nelle condanne citate -, poiché gli esiti di quella collettiva esplosione di paura furono, oltre al ferimento di 1.692 persone, anche due morti: quella di Erika Pioletti e quella di Marisa Amato. Una terza persona morrà tre anni dopo: Anthony Bucci, 50 anni, di San Marino, infatti, è morto il 31 gennaio all’ospedale di Monza, dopo aver subito anche l’amputazione di un piede (era un paziente diabetico e non è mai più riuscito a tornare a camminare normalmente, sicché, muovendo poco gli arti, i vasi sanguigni si erano calcificati e nell’ottobre 2018 i medici avevano dovuto amputargli un piede). Tra i quasi 1.700 feriti ci fu anche un bambino, Kelvin, di sette anni. Il piccolo, per fortuna, venne messo in salvo da due ragazzi, Mohammad Guyele e Federico Rappazzo, come riportò La Stampa.

Quella stessa sera del 3 giugno 2017, meno di un’ora dopo il caos scoppiato a Torino – cioè, alle 23.08 secondo l’ora italiana -, veniva realizzato un vero atto di terrorismo, a Londra. Erano trascorsi poco più di due mesi dall’attentato a Westminster e solo due settimane da quello commesso a Manchester. A Londra, sette persone venivano uccise e 48 ferite, di cui alcune in modo particolarmente grave.

Sulla rubrica Politica e Conflitto abbiamo già dedicato un post a questo evento del 3 giugno 2017. In esso avevamo scritto che le persone, spaventate e scioccate, tra quelle presenti quella sera in Piazza San Carlo, certamente non erano state vittime di uno specifico atto terroristico, come lo erano state, invece, quelle coinvolte nell’attacco quasi contestualmente commesso a Londra, ma potevano considerarsi vittime del clima di paura volutamente creato dal terrorismo. Cioè, quegli spettatori della partita di Champions League erano stati vittime, oltre che di quanto verrà stabilito definitivamente dall’autorità giudiziaria rispetto ai processi sopra citati, anche di un’attività terroristica. Un’attività svolta su scala internazionale che era riuscita a trasformare quegli spettatori in una folla atterrita e, perciò, pericolosissima.

A ridosso dell’evento, anche Vincenzo Villari, primario di psichiatria alle Molinette, intervistato da La Stampa, alla domanda se vi fosse stata psicosi da terrorismo, egli aveva risposto: «L’obiettivo dei terroristi è proprio quello di diffondere la paura. Anche in situazioni come quella di sabato sera, che non c’entrano con gli attentati. E quando questa dinamica si sviluppa tra migliaia di persone, l’effetto si moltiplica e la folla è difficile da organizzare».

La vittimizzazione subita da chi visse l’orribile notte di Piazza San Carlo non fu, quindi, una condizione di “vittimizzazione potenziale”. Infatti, tale termine si riferisce alla reazione emotiva e comportamentale di chi teme che prima o poi un crimine possa essere commesso a suo danno, essendo stato sensibilizzato dall’esposizione alla notizia circa uno o più episodi delittuosi. Mentre il 3 giugno 2017, non si è temuto che un giorno potesse accadere un attentato, ma si è pensato che fosse proprio in corso, in quell’esatto momento. E la convinzione, o anche solo il sospetto, che fosse in esecuzione un attacco terroristico ha prodotto una vittimizzazione effettiva.

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Nel post Le vittime di Piazza San Carlo, si era spiegato che tra i Servizi gratuiti che l’Associazione Me.Dia.Re. eroga a Torino, vi sono anche quelli di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato, doloso e colposo, e per le persone affettivamente legate alle vittime, e che all’interno di tale attività erano state ascoltate alcune delle persone presenti in quella piazza, nei giorni e nelle settimane successivi al 3 giugno 2017.

Quella descritta dalla persone ascoltate era stata un’esperienza da incubo. Nel post citato avevamo scritto «Non soltanto la sensazione di essere premuti e soffocati dalla calca, già antecedente alle 22,15, e poi il terrore […]. Una sensazione nauseante e violentissima di irrealtà e, contemporaneamente di urto brutale contro l’assurdo che diventa realtà. Uno stordente  sovvertimento di ogni senso comune, di ogni logica. Uno smarrimento di ogni riferimento. Una disperata ricerca di appigli fisici, per non essere schiacciati al suolo, cosparso di vetri, o sulle transenne, o per non perdere compagni, amiche o familiari le cui dita scivolavano via dalla stretta della mano […] Il tentativo di capire cosa stesse accadendo, utilizzando le categorie disponibili per interpretare gli stimoli fisici ricevuti. Così, il rumore di circa 80 mila piedi sull’acciottolato, a chi era finito per terra, in alcuni casi, aveva fatto pensare ad un treno, ad altri ad un cingolato che stava percorrendo la piazza. Perché nessuno prima di allora aveva mai messo l’orecchio al suolo per sentire il rumore di tante migliaia di piedi che pestano e corrono, mentre il suono del treno o quello di un mezzo con i cingoli era conosciuto, e a quelle cose si era pensato. Nel primo caso restando dentro un limbo trasognato, nel secondo, quello del cingolato, convincendosi che davvero c’erano i terroristi in piazza. E subito il pensiero era andato alla strage del 14 luglio 2016 a Nizza […]. Mentre ad altri, e tra questi chi aveva fatto l’esperienza diretta del G8 di Genova del 2001, molti dei suoni avvertiti e delle cose viste hanno fatto pensare ad un golpe». Si sapeva che si rischiava di morire e c’era anche la sensazione di poter fare del male o, addirittura, di poter dare la morte ad altri. E questo aspetto si collegava ad un altro vissuto, sviluppatosi in alcuni già pochi minuti dopo, in alcuni altri a distanza di alcune ore: una brutta sensazione vergogna. Per costoro l’aver cercato  di salvare se stessi e i propri cari, l’essere stati dominati dal “mors tua, vita mea”, il ricordare di aver spinto e lottato, o il non riuscire a ricordarlo, furono motivo di vergogna, e non solo di senso di colpa. E la vergogna è assai difficile sia da sostenere che da condividere, essendo più scomoda ed ingombrante, sotto certi aspetti, del mero senso di colpa. Questo sentimento doloroso, di per sé, può, in generale, avere anche qualcosa di eroico. Mentre, in alcuni tra gli spettatori della partita del 3 giugno 2017, costituiva un motivo di vergogna e non di senso di colpa l’aver reagito alla paura, dandole corso, venendo così meno al dovere (morale, sociale?) di restare freddi e controllati, di avere coraggio. Per costoro, costituiva un’aggravante il fatto beffardo che, in realtà, non fosse accaduto nulla di ciò che in tanti in piazza pensavano fosse successo: non c’era stato nessun attacco terroristico.

Nonostante questo dato di realtà, sarebbe bene ricordare che quella sera del 3 giugno 2017 gli spettatori di Piazza San Carlo, furono vittime di una violenza. E occorre ricordare che l’esserlo senza venire riconosciuti come tali può avere conseguenze lesive importantissime. Si pensi, ad esempio, alla donna vittima di violenza in famiglia che, da degli interlocutori da cui vorrebbe essere compresa e creduta, sente sminuiti i maltrattamenti cui è sottoposta. Oppure si pensi a quei richiedenti asilo che, sebbene abbiano patito torture e violenze atroci, non vengono creduti. Anche per coloro che vissero l’incubo del 3 giugno 2017 in piazza San Carlo il non considerare la violenza vissuta equivarrebbe a negare loro la legittimità della sofferenza provata. Chi visse quell’evento, in pochi minuti, perse molte cose importanti, difficili da spiegare e da recuperare e reintegrare. Sarebbe bene non pensare ad esse come a vittime di rango inferiore rispetto ad altre. Sarebbe bene non privare queste persone del rispetto umano e civile dovuto ad esse come a tutte le altre vittime di violenza. Perché, come ricordammo altrove, le vittime sono tutte uguali e nessuna è più uguale di un’altra.

Alberto Quattrocolo

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