1936, esce Tempi Moderni di Chaplin

Il 5 febbraio 1936, il Rivoli Theatre di New York è gremito per una première molto attesa. Le luci si spengono, il film si apre con una scritta:

Tempi Moderni, una storia sull’industria, sull’intraprendenza individuale, sulla crociata dell’umanità che cerca la felicità.

La scena immediatamente successiva mostra un gregge di pecore, tra le quali una nera che cammina senza seguire la fila, e subito, grazie a una sapiente dissolvenza, si passa a una massa di operai che procede a spintoni fuori da una stazione della metropolitana nell’ora di punta, diretta a grandi passi verso la fabbrica che la ingoierà.

Charlie Chaplin, che del film è produttore, sceneggiatore, regista e protagonista, non è presente. Il feeling con l’America è offuscato da tempo, teme di essere “scrutato e additato come un freak”. Tempi moderni era stato un film complesso, di lunga gestazione, aveva comportato scelte difficili.

Il film nasce indubbiamente dalle riflessioni di Chaplin sulla Depressione. Tra l’ottobre del 1929, agli inizi del crollo della Borsa, fino ai primi mesi del ‘33, negli Stati Uniti il PIL era diminuito del 29%, mentre il tasso di disoccupazione in quasi tutti i settori era balzato dal 3 al 25%.

Dal luglio ‘32 al febbraio seguente, Chaplin scrive per una rivista femminile una serie di articoli intitolati “Un comico vede il mondo”, diario del viaggio durato sedici mesi tra Europa ed Estremo Oriente, strumento prezioso per comprendere la sua visione della società nel periodo immediatamente precedente a Tempi moderni. Tra i temi ricorrenti, la solidarietà nei confronti di coloro che soffrono le maggiori conseguenze della Depressione, operai e disoccupati, rappresentati con un’empatia frutto dell’esperienza della povertà vissuta in prima persona da Chaplin durante l’infanzia; il sospetto che le istituzioni sociali moderne mirino più a controllare e opprimere i lavoratori che a garantire loro la stabilità necessaria per migliorare le proprie condizioni di vita; le riflessioni suscitate dall’incontro con il Mahatma Gandhi in merito “all’industrializzazione sconsiderata con in mente solo il profitto”.

Sempre durante l’ideazione di Tempi moderni, si acuiscono i conflitti tra classe operaia e classe dirigente: nel solo 1934 vengono dichiarati 1800 scioperi, coinvolgendo oltre un milione e mezzo di lavoratori. Durante la campagna per la nomina del governatore della California, da molti storici indicata come l’ingresso del cinema hollywoodiano nella sfera politica del paese, Chaplin si schiera a sostegno del candidato democratico; le sue simpatie per il Partito laburista inglese erano note, così come il suo sostegno al New Deal di Roosevelt: in quegli anni, Chaplin può essere definito un progressista, apartitico, orientato a sinistra, solidale nei confronti dei lavoratori e di quanti risentivano della depressione economica.

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Il contesto generale dei primi anni Trenta incoraggia gli artisti a uscire dall’isolamento estetico per occuparsi di temi sociali e politici. Le tensioni economiche, le condizioni sociali e il clima intellettuale di quel periodo suggeriscono a Chaplin un film in cui sia più diretto il rapporto tra il suo personaggio, Charlot (con tutte le convenzioni comiche a lui legate), e le problematiche dell’epoca.

In una pellicola allo stesso tempo realistica e all’avanguardia, Chaplin riporta in scena per l’ultima volta il Vagabondo, The Tramp, il cui malinconico disincanto è emblema dell’alienazione umana delle classi sociali più emarginate, nell’era del progresso economico e industriale. Charlot si converte qui in operaio fordista, alienato dalla catena di montaggio. Chaplin rivelò che era stata la conversazione avuta con un cronista del “World” di New York a dargli lo spunto per la lunga sequenza iniziale:

Mi parlò delle catene di montaggio adottate dalle fabbriche di Detroit: la storia angosciosa dei robusti giovanotti strappati alle fattorie con la prospettiva di più lauti guadagni, che dopo quattro o cinque anni di lavoro alle catene di montaggio diventavano rottami umani col sistema nervoso a pezzi.

Divorato dalla macchina, nutrito a forza (“Non fermatevi per il pranzo, sconfiggete i vostri concorrenti”), ricoverato per esaurimento nervoso, arrestato per errore con l’accusa di aver guidato un gruppo di rivoltosi e altrettanto casualmente liberato, convertito in guardiano notturno di un grande magazzino, poi intrattenitore per i clienti di un ristorante insieme alla Monella diventata nel frattempo sua compagna di avventure, in Tempi moderni il Vagabondo si contrappone ai Moloch della modernità: sceriffi, capitalisti, Grandi fratelli, guardiani.

Inglobando la questione sociale nella propria poetica, all’interno della stessa formula cinematografica sviluppata nelle sue precedenti commedie, Chaplin consegna al mondo la propria teoria economica, l’utopia che vorrebbe una distribuzione più equa non solo della ricchezza, ma anche del lavoro:

La disoccupazione è il problema centrale dei nostri giorni. E le macchine dovrebbero lavorare per il bene dell’umanità, non per sostituirla.

Il lavoro, che dovrebbe generare libertà, in Tempi Moderni (e non solo quelli del film) finisce per produrre sottomissione: Chaplin sembra volerci ricordare che senza lavoro non esiste uguaglianza, nessuna libertà è possibile, e la “ricerca della felicità” promossa dalla Costituzione americana si risolve in un fallimento. L’uomo moderno ha bisogno di un lavoro per affermare se stesso, ma se la società non lo permette il lavoro diventa una sfida, una lotta: Chaplin annuncia alla co-protagonista che andrà a cercare lavoro (per sé, per loro, per un futuro) “come se stesse annunciando la partenza per una battaglia, o suonando la carica durante uno scontro a cavallo”. In queste piccole scene risiede il senso profondo del film.

Le aspirazioni delle persone comuni come Charlot e la Monella sono semplici, una casa comoda e cibo in abbondanza, ma la realtà concede loro al massimo una baracca ai margini della città. Persino quando sembrano aver trovato un lavoro e la sicurezza economica alla fine del film, i servizi sociali infrangono i loro sogni. Malgrado l’obiettivo di Tempi moderni non sia quello di suggerire una riforma radicale del sistema, il film è sicuramente molto più ancorato alla realtà sociale di quanto lo siano state tutte le opere precedenti di Chaplin.

Tempi Moderni è anche un film – quasi – muto girato in epoca pienamente sonora: unica concessione ai tempi sono i pochi effetti sonori, quasi tutti originati dagli oggetti che presiedono all’alienazione, macchine, schermi televisivi. Anche quando si sente la voce dell’autore, non parla ma canta, e per di più lo fa in grammelot, mischiando parole di varie lingue, storpiate e messe una dopo l’altra senza costrutto. La canzone è nota come Nonsense Song ed è un adattamento di Je cherche après Titine, una canzone francese – in vero francese – del 1917. L’assenza delle parole è una scelta, non un obbligo: nel 1936 i talkies, i film sonori, erano ormai la norma, e Chaplin è tentato di adeguarsi, scrive e prova alcuni dialoghi. Finché l’idea del silenzio e della poesia che ne derivava non hanno prevalso.

L’ultimo film in cui appare Charlot, congedato con una bellissima passeggiata verso l’orizzonte, contiene anche uno degli ultimi inni alla speranza messi in scena dal sempre più scomodo Chaplin: nonostante il futuro dei due protagonisti sia molto incerto, il film si conclude con un invito a non arrendersi mai. Alle accuse di filocomunismo, che nei primi anni Cinquanta comporteranno la sua espulsione di fatto dal territorio americano, Chaplin risponde che la propria ideologia non è altro che quella professata dal suo “omino”:

Avere un tetto sulla testa, lavorare liberamente e formarsi una famiglia. Questo è un ideale democratico, non già comunista.

Il film è un successo, anche se inizialmente non tutti ne colgono gli aspetti di critica sociale; negli anni, diviene un classico proprio grazie al contrasto tra la gravità del messaggio e l’ingenuità del protagonista. Così sintetizzerà dopo quarant’anni, in morte di Chaplin, un commentatore italiano:

Aveva nel sorriso il pianto del mondo e nelle lacrime delle cose faceva brillare la gioia della vita. Toccato dalla grazia del genio era il guanto rovesciato della nostra civiltà, il miele e lo schiaffo, lo scherno ed il singhiozzo; era il nostro rimprovero e la nostra speranza di essere uomini. […] Uomini e donne di tutte le età e colore si riconobbero in lui, si contorcevano dalle risa e sentivano salirsi dentro pietà per se stessi. Andavano per gioire e uscivano pieni di malinconia. […] Il lungo viaggio di un pessimista europeo, con sangue gitano ed ebreo, carico di antichi dolori, compiuto per convincersi che tuttavia conviene credere nell’uomo; questo il transito di Chaplin, il senso della sua opera di artista universale.

 

Silvia Boverini

Fonti:
G. Grazzini, Corriere della Sera, 27 dicembre 1977; A. Pigoni, “Tempi Moderni, Charlie Chaplin”, www.salteditions.it; G. Grossi, “40 anni senza Charlie Chaplin: 5 ricordi di un genio malinconico”, www.movieplayer.it; “La Depressione e il contesto culturale”, http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it; “Il primo film in cui si sente la voce di Charlie Chaplin”, www.ilpost.it; “Tempi moderni, il geniale film-denuncia di Charlie Chaplin compie 80 anni”, http://cinema.fanpage.it; www.it.wikipedia.org; P. Piacenza, “Tempi moderni compie ottant’anni”, www.iodonna.it

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