12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai

Lungo la costa centrale del Vietnam del Sud, 840 chilometri a nord di Saigon, nei pressi di un villaggio ripartito in quattro frazioni, in mezzo alla vegetazione e al silenzio si possono leggere i nomi di centinaia di persone, incisi su tavolette di legno appese agli alberi: ci sono donne, bambini, interi nuclei familiari, un ultranovantenne, un bebé di due mesi. Sono le vittime del massacro compiuto da militari statunitensi, comunemente noto come l’eccidio di My Lai, dal nome di una delle frazioni del villaggio di Son My.

Il 12 novembre 1969 il giornalista indipendente americano Seymour Hersh scoprì la vicenda, avvenuta circa un anno e mezzo prima e fino a quel momento tenuta nascosta dall’esercito, sebbene fosse già in corso un’inchiesta interna in proposito. Nell’autunno del 1969, l’editorialista politico della testata The Village Voice fu informato da una sua fonte che un soldato statunitense stava per affrontare la corte marziale per aver condotto un massacro di civili vietnamiti, e che l’esercito non voleva rendere pubblico il fatto. La notizia fu passata a Hersh, che dovette fare due dozzine di telefonate prima di ottenere un vago resoconto dell’accaduto e il nome del militare sotto accusa, il tenente William Calley; riuscì a intervistare prima l’avvocato difensore e in seguito lo stesso Calley, e, nel giro di venti giorni da quella prima segnalazione, aveva pronto il primo articolo.

Dopo essere stata rifiutata da molti giornali, l’indagine venne infine pubblicata da Associated Press: Hersh riferì i fatti, mettendo in dubbio il numero reale dei morti, e svelò l’accusa mossa dal tribunale militare nei confronti del tenente Calley, ossia che avesse ucciso centonove civili.

 

A testimoniare l’eccidio comparvero anche le foto scattate da Ronald Haeberle, un fotografo militare che alle 7.30 della mattina del 16 marzo 1968 era atterrato in elicottero, insieme a un centinaio di commilitoni dell’11ª Brigata (ribattezzata in seguito “Brigata Macellai”) della Compagnia Charlie, nei pressi di My Lai; in seguito al clamore suscitato dall’articolo di Hersh il quotidiano di Cleveland The Plain Dealer decise di pubblicare le foto, che sconvolsero i lettori. A quel punto, la storia venne ripresa dalle testate più importanti, Time, Life, Newsweek. Hersh sviluppò l’inchiesta in una serie di articoli, che nel 1970 gli valsero il Pulitzer Prize for International Reporting.

Il 1968 era stato l’anno in cui il presidente Lyndon Johnson aveva inviato nuove truppe sul fronte bellico, mentre il Vietnam del Nord e i Viet Cong avevano lanciato la cosiddetta offensiva del Têt, attaccando contemporaneamente trenta obiettivi militari e occupando la maggior parte dei centri abitati e delle regioni più popolate del Vietnam del Sud, compresa la capitale Saigon. Nelle settimane successive la reazione statunitense fu molto dura e violenta e furono colpiti numerosi territori in cui si pensava si muovessero i guerriglieri. A My Lai il 16 marzo arrivò la Compagnia C, primo battaglione, 20º fanteria dell’11ª brigata della 23ª Divisione di Fanteria dell’U.S. Army, guidata dal tenente William Calley.

Quando i soldati statunitensi fecero il loro ingresso nel villaggio, di buon mattino, non trovarono alcun Viet Cong ad attenderli. Era giorno di mercato, c’erano donne che preparavano il riso per la colazione, c’erano vecchi e bambini. Gli abitanti furono raggruppati mentre i soldati ispezionarono le loro capanne. Nonostante avessero trovato solo poche armi, nonostante non fosse stato sparato un solo colpo e non fosse presente nessun uomo in età militare, i soldati diedero il via alla strage. Alcuni furono trinciati dalle baionette, altri ammassati nei fossati e fatti saltare in aria con le granate. Donne e bambini inginocchiati a pregare attorno a un tempio furono ammazzati con un colpo di fucile alla testa. Le donne tentavano di coprire con il corpo i propri figli: le une e gli altri vennero sterminati, così come i piccoli che tentavano di fuggire. Le capanne furono date alle fiamme e, quando gli abitanti ne uscirono per non rimanere bruciati vivi, finirono falcidiati dalle raffiche di mitra. Donne e bambine vennero stuprate e mutilate, ad alcuni fu strappato lo scalpo, ad altri la lingua. Il villaggio fu raso al suolo. Neanche il bestiame scampò al massacro.

L’entità della carneficina avrebbe potuto essere ancor maggiore se non fosse giunto un elicottero americano in ricognizione. “Ovunque guardassimo, vedevamo dei cadaveri”, avrebbe riferito in seguito il pilota, “si trattava di neonati, di bambini di due, tre, quattro, cinque anni, di donne, di uomini molto anziani”. L’equipaggio decise di atterrare e frapporsi tra i vietnamiti superstiti e i soldati, intimando a questi di porre fine alle atrocità, sotto la minaccia di aprire il fuoco contro di loro, poi si procedette all’evacuazione dei superstiti. Per quell’azione, trent’anni dopo, al pilota Hugh Thompson, all’artigliere Lawrence Colburn e al capo dell’equipaggio Glenn Andreotta fu conferita l’onorificenza più alta dell’esercito statunitense per atti d’eroismo che non coinvolgano il nemico, la Soldier’s Medal. L’elicottero si lasciò alle spalle 347 cadaveri, secondo alcune fonti, 504 secondo quelle più accreditate.

Per un anno, di My Lai non si seppe nulla. L’esercito svolse le sue indagini, dapprima condotte dal colonnello Henderson, comandante della 11ª Brigata, poi, in seguito alla lettera del soldato Tom Glen, presente ai fatti, che denunciava il comportamento delle truppe statunitensi, dal maggiore Colin Powell, che nel suo rapporto concluse:

A diretta refutazione di quanto ritratto, c’è il fatto che le relazioni tra soldati americani e popolazione vietnamita sono eccellenti.

Le due commissioni d’inchiesta costituite dall’esercito portarono a giudizio 14 militari, tra cui il capitano Ernest Medina e il tenente Calley: tutti assolti tranne quest’ultimo, condannato nel 1971 al carcere a vita per omicidio premeditato di 22 civili e per aver impartito l’ordine di sparare. Calley si difese sostenendo di aver semplicemente eseguito gli ordini del suo superiore, il capitano Medina, che, da parte sua, negò tutte le accuse e fu rilasciato. In seguito, tuttavia, avrebbe sostenuto che erano state fornite alcune informazioni, rivelatesi poi inesatte, secondo cui i civili non si sarebbero trovati in quel momento nel villaggio. Più tardi, un tenente dell’esercito sudvietnamita avrebbe riferito ai suoi superiori che il massacro fu una vendetta per uno scontro a fuoco con truppe Viet Cong che si erano mischiate ai civili.

Sotto la pressione dell’opinione pubblica che, in gran parte, lo considerava nient’altro che un capro espiatorio, Calley ricevette un atto di indulgenza da parte dell’allora presidente Nixon e fu trasferito agli arresti domiciliari; scontò questa pena per poco più di tre anni, prima di essere rimesso in libertà vigilata nel 1974.

Sulla base del rapporto Peers, l’inchiesta sulle cause del massacro, il Dipartimento della Difesa americano adottò la direttiva che richiede che truppe e ufficiali arruolati ricevano una precisa formazione sulle leggi della guerra. In guerra, infatti, i civili non possono essere presi deliberatamente di mira, a meno che non partecipino direttamente alle ostilità. Tale principio semplice affonda le sue radici in un’idea altrettanto semplice e cioè che, contrariamente a quanto si è ritenuto per molto tempo, in guerra non proprio tutto è concesso. Ciò significa che il conflitto non fa di qualsiasi condotta una condotta lecita: se proprio guerra deve essere, che almeno ci siano delle regole (c.d. jus in bello). La condizione dei civili nei conflitti armati è tutelata da un apposito trattato internazionale giuridicamente vincolante per le parti contraenti: la Quarta Convenzione di Ginevra (1949).

Ricordando il 50° anniversario della strage, il Washington Post scrisse:

Il massacro di My Lai è stato l’episodio più vergognoso della storia militare degli Stati Uniti ma non una devianza nella guerra americana in Vietnam; gli archivi militari di tre decenni documentano almeno 300 casi che possono essere definiti crimini di guerra […] La guerra aveva regole ufficiali e non ufficiali. Quella ufficiale indicava l’evacuazione dei civili nelle zone a rischio, quelle ufficiose chiedevano di ‘sparare su qualsiasi cosa si muova’.

Nel corso del processo per l’eccidio di My Lai, qualcuno affermò che “non puoi permetterti di tirare a indovinare se un civile sia o meno un Viet Cong. O ti sparano, o spari tu a loro”; a proposito di quelle uccisioni, i giudici militari parlarono di “omicidi”, il tenente Calley e gli altri coimputati di “obbedienza agli ordini”.

Silvia Boverini

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Fonti: www.wikipedia.org; www.pulitzer.org;  R. Costanzo, “Quando gli americani uccidono i civili”, www.sicurezzainternazionale.luiss.it; “Il massacro di My Lai, cinquant’anni fa”, www.ilpost.it; “Vietnam, il Washington Post a 50 anni dal massacro di My Lai: ‘Vergogna Usa’”, www.dire.it; G. Costigliola, “Il massacro di My Lai: ieri come oggi l’orrore senza fine della guerra”, www.globalist.it

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